«Ancora cerco la mia Mez uccisa dagli amici»

È il tempo dei ricordi. Quelli che straziano, che lacerano l’anima e gonfiano i rimpianti e che eppure per un attimo sembrano far tornare chi non c’è più. Un giudice ascolta. In silenzio.
Davanti allo scranno della corte d’Assise di Perugia c’è una madre. La madre di Mez, Arline Kercher, lo sguardo severo dietro gli occhialoni troppo grandi, minuta, i toni composti, la voce ferma, gelata da un dolore pietrificato. Incancellabile. Anche Amanda, la bella che anche in aula di solito ride e scherza, poco più in la, lei seduta sul banco degli imputati, con l’accusa di aver partecipato in una notte di follia a Perugia, all’omicidio di una coetanea che viveva con lei, si commuove. Raffaele, il suo ex e coimputato per lo stesso delitto, è imperscrutabile. Stavolta, vicino, c’è anche il fidanzato americano della bella «Foxie»
«Cerco ancora mia figlia - esordisce Arline -. È tutto incredibile e surreale. Non è soltanto la morte, ma la brutalità, la violenza di ciò che è stato fatto. Non ho odio, ma cerco giustizia. E soprattutto capire: perché?». Il marito e l’altra figlia, Stephanie, quasi una fotocopia di Meredith, ascoltano con gli occhi gonfi.
La donna racconta dell’ultima telefonata con la figlia, il pomeriggio del 1° novembre, poche ore prima che venisse ammazzata. «Mi disse che era molto stanca perché la notte prima aveva festeggiato Halloween e che stava andando a casa di amici ma che sarebbe rientrata presto: doveva fare un tema e il giorno dopo aveva lezione».
«Era venuta in Italia per studiare, aveva scelto il casolare di via della Pergola perché era vicino all’università e da lì si vedeva il paesaggio dell’Umbria». Se n’era innamorata durante una vacanza.
«Amanda Knox - racconta ancora la madre di Meredith -, arrivò nella casa il 26 settembre e Mez la portò fuori a pranzo per farle conoscere i suoi amici. Meredith mi disse che Amanda voleva socializzare con gli italiani perché voleva imparare la lingua. Aggiunse anche che era molto stupita dal fatto che l’americana aveva trovato un ragazzo già dalla prima settimana.
Non accusa mai la stravagante americanina di Seattle, la mamma di Mez. Non accenna alle presunte liti per il bagno sporco o per i soldi dell’affitto, a gelosie o rancori. Racconta solo della sua «bambina» che non c’è più. «Una ragazza che amava la pizza e il cioccolato e che sognava di fare la giornalista o di lavorare a Bruxelles per la Commissione europea». Lo dice il papà John, lui giornalista e anche lui chiamato a ricordare.
John Kercher ricostruisce il pomeriggio del 2 novembre del 2007 quando apprese della morte della figlia. «Mi chiamò Arline - ha spiegato - e mi disse che aveva saputo dai telegiornali della morte di una studentessa a Perugia. Contattai i giornali inglesi ma non sapevano niente. Provai una dozzina di volte a fare il numero del telefono cellulare di mia figlia ma rispose sempre la segreteria. Poi richiamai i giornali che avevano il nome della studentessa uccisa. Era quello di Meredith».
La giornata dei ricordi, dunque, non delle prove. Un particolare, emerso quasi casualmente, dalle parole dei familiari di Mez, potrebbe fornire un tassello alla ricostruzione del delitto. «Mia sorella se fosse stata aggredita da uno sconosciuto - spiega Stefanie Kercher - avrebbe lottato con tutte le sue forze fino alla fine. Anche perché Meredith era molto forte fisicamente.

Aveva fatto karate». Ma i medici non hanno trovato segni di lotta, di resistenza. Le unghie della vittima erano pulite, nessuna traccia genetica, quelle tipiche di chi si difende da un aggressore. Si fidava di chi l’ha ammazzata.

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