Andrea Bisicchia racconta 150 anni di teatro e mafia

Nei momenti difficili, compreso quello attuale, l’arte ha sempre rappresentato uno strumento di analisi della realtà, fornendo ai contemporanei, ma soprattutto ai posteri, le più profonde chiavi interpretative dei mutamenti storici. Ciò è vero per le arti visive, per il cinema, ma soprattutto per il teatro cosiddetto civile. Il professor Andrea Bisicchia, direttore del Centro studi e comunicazione del Teatro Franco Parenti nonchè memoria storica di 40 anni di teatri milanesi, ha recentemente pubblicato un interessante saggio che - da esperto e siciliano - accende i riflettori su un aspetto per certi versi inedito, il rapporto fra teatro e mafia in 150 anni di Stato unitario. Non in chiave ovviamente collusiva ma tracciando un profilo di tutti quegli autori che, con i loro personaggi, hanno cercato di ricostruire le correlazioni esistenti tra malavita organizzata, potere delle cosche e potere politico.
Il libro, intitolato «Teatro e Mafia 1861-2011 (Editrice San Raffaele, 209 pag.) rientra a pieno titolo nel percorso critico di Bisicchia che da sempre utilizza categorie particolari per tracciare la storia del teatro in maniera personale; lo ha fatto con il sacro, con la scienza, l'economia, la lingua della scena. Con «Teatro e mafia» analizza 150 anni (quanto quelli dell'Unità d'Italia) di storia del teatro legata ad autori - come Rizzotto, Verga, Pirandello, Don Sturzo, Cesareo, Viviani, Eduardo, Sciascia, Fava, Luzi, Saviano - e a testi che hanno portato sulla scena il tema della violenza mafiosa in ambito sociale e politico. Il tutto con rigore scientifico e con apparati bibliografici che fanno riferimento sia alla storiografia teatrale che a quella del fenomeno mafioso. L’autore illustra un percorso che dal 1861 -anno di composizione de I Mafiusi di la Vicaria - approda fino ai giorni nostri utilizzando una molteplicità di testi e messinscene.
Più del genere narrativo - scrive Bisicchia - il teatro è riuscito a scrutare il fenomeno con la potenza del suo linguaggio, delle sue metafore sceniche e, spesso, della sua poesia, offrendo uno scenario capace di coinvolgere il lettore.
Una storia che identifica le sue radici nel dramma de I Mafiusi di Giuseppe Rizzotto, spartiaque del passaggio dall’età borbonica a quella dell’Unità d’Italia e che con le maschere dei vastasi mise in scena la ribellione come forma di rinnovamento sociale, in cui i picciotti incarnarono le origini della coscienza popolare tardoromantica.

Il vero «salto» avverrà 40 anni dopo con «La Mafia» di Luigi Sturzo e l’atto d’accusa nei confronti dell’arroganza mafiosa che già organicamente entrava nel mondo della politica; ma soprattutto nel secondo Novecento quando il potere mafioso, colluso e alleato con quello dello Stato, visse un particolare processo di identificazione con l’apparato. Un processo ben illustrato e messo in scena da personaggi teatrali come i «Guappi» di Viviani e «I Sindaci» di Eduardo.

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