Gli animali, la nostra vita di «riserva»

Entro per caso in un ipermercato nella periferia est milanese. Sono le due del pomeriggio. Ora morta: tre casse aperte su trenta, avventori scarsi e radi, sensazione di vuoto e spazio. Visito il luogo. E mi rendo conto che il reparto destinato a cibi e robe per animali è più vasto, meglio fornito di quello per i neonati. Incredibile, inattesa la quantità di scatole, scatolette, ossa vere e ossa plastificate, biscotti, misture di carne e pollame, palle e palline, guinzagli e cappottini, galoscine, integratori, succedanei di dolci, sacchi di miglio o segatura o sabbia, trespoli, addobbi per acquari. Tutto destinato a cani e gatti. E a canarini, criceti, pappagalli, conigli, porcelli e merli indiani, pesci e pescetti, tartarughe d’acqua e terra.
Mi accorgo, con lo stupore di chi registra per la prima volta (e in ritardo) l’ovvietà quotidiana, che oggi tutti conviviamo con delle bestie. E che una volta non era così. Mi domando cosa è cambiato e, soprattutto, perché. Non attribuirei il mutamento solo a recenti tensioni, mode animaliste. Le quali, a ben vedere, non sono affatto recenti. Penso, piuttosto, a un nuovo «senso comune» che avanza e si diffonde. Secondo il quale l’immagine globale della bestia si è profondamente modificata. Fornitrice di cibo, datrice di energia e lavoro, mezzo di difesa o custodia o caccia o arredo o compagnia fedele: etichette obsolete, passate. Chi sfrutta l’aggressività del pitbull, oltre che idiota, è anche indietro sui tempi. La bestia postmoderna (quantomeno: la bestia urbana, occidentale) non serve, in verità, a nulla. E neppure invade case, giardini, cortili perché decora. E nemmeno ha valore in quanto trastullo vivo, copia di altri trastulli vivi osservati al cinema o alla televisione. Guardiamo meglio. Forse, l’animalità urbana è cresciuta in misura esponenziale semplicemente perché la stessa bestia ha, in misura altrettanto esponenziale, perduto ogni caratteristica di utilità. È priva di senso. È rimasta con la sua nudissima esistenza: è solo corpo, impulsi, tempo da passare. Strano: in certe creature la modernità ha avuto un effetto di riduzione, sottrazione di proprietà, impoverimento.
Alcune bestie, allora, altro non sanno «fare» se non esistere, necessitare di cure. E ciò che ha solo bisogno di cura suscita pulsioni protettive, tensioni a conservare. Suscita, in fondo, forme di bontà sempre a rischio di degenerazione (umanizzazioni o, all’opposto, riduzioni a giocheria, pupazzeria) ma, in sé e per sé, pulite, sane. Altrimenti che cosa ci sta a fare da me il cane Pico, pastore tedesco recuperato al canile? Ci sta per essere accudito al meglio e a lungo. Nient’altro, proprio nient’altro. Certo, non è qui per tirare slitte, inseguire pecore, atterrire ladri. La fenomenologia del padrone postmoderno e postnovecentesco è, per certi aspetti, ignota, da ristudiare. Soprattutto nella cura che offre alla bestia: è gratuita, immotivata. Non ha finalità, scopi. Non è facile ricavarne un senso. Si rischia sempre di dire che si adottano cani (o altri esseri vivi) per retribuirsi di affetti mancanti. O per tappare, sublimare, deviare, simbolificare investimenti inappagati. Non voglio ancora credere che nella bestia si riversa quello che non si ha più la voglia o la capacità di riversare sull’uomo. Che si fanno pochi figli e si allevano tanti cani, gatti, volatili. Anche se c’è del vero: l’indotto del bestiame da casa funziona e tira.
Eppure, mi sembra una costellazione di risposte inadeguate. Fossero valide, sarebbero l’indice di una scarsissima salute collettiva. E porterebbero a conclusioni apocalittiche: forse finiremo tutti in una affettività-monstre inabile a discernere creature umane e non umane. È una risposta estrema, astratta e mostruosa ma non del tutto incoerente né illegittima alla domanda già formulata: perché conviviamo tanto con le bestie?
E se la risposta, invece, partisse da un altro ordine di considerazioni? Dal fatto, per esempio, che il contesto della modernità ha creato, tra pieghe e maglie, una effettiva disponibilità all’accoglienza gratuita, immotivata della vita animale proprio in quanto vita e nient’altro? Vita allo stato puro, elementare. Vita anteriore alla «mia» specie.

E se in quella accoglienza ci fosse da rilevare un tratto nuovo dei tempi, una nuova forma di coscienza, un diverso modo di essere con la vita e, dunque, di essere al mondo? E se si stesse instaurando una sorta di «nuova alleanza» tra le creature? Fosse davvero così, ci sarebbe da essere, almeno per un attimo, quasi ottimisti.
Grazie alle bestie.

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