Anni Sessanta

Non ingannino la Torino industriale della Fiat né la prima Milano da bere, del design, dell’architettura e della moda: negli anni Sessanta Roma era l’unica città italiana realmente internazionale, il ponte verso l’America. Solo vent’anni dopo, e non con la stessa intensità e comunque con un alto prezzo da pagare, riuscirà a ripetersi un clima così aperto al nuovo e alla sperimentazione. Impressionante scorrere l’elenco di persone e personalità allora attratte dalla Capitale: gente dell’arte, del cinema, dello spettacolo, della cultura, della letteratura, del mondo degli affari, del potere (le fotografie di Elisabetta Catalano ne sono un eccezionale compendio) cui vanno aggiunti perdigiorno, aspiranti qualcosa, abili nel vivere d’espedienti, improvvisatori di mestieri svariati.
Ma dal punto di vista dell’arte, quando cominciano gli anni Sessanta? Probabilmente, per dirla con Maurizio Calvesi, nel 1958, con una mostra della galleria Appia Antica che riuniva tre giovani romani, Lo Savio, Schifano e Uncini, insieme al più famoso milanese Piero Manzoni. L’anno successivo esordiscono Mambor e Tacchi, ancora all’Appia Antica, quindi, a La Salita di Gian Tommaso Liverani, Angeli e Festa.
Tanti sono i protagonisti di questa vicenda straordinaria che forse conviene leggere la storia di Roma degli anni Sessanta attraverso la sua geografia, quei luoghi dove l’arte si fonde con la vita. Angeli, Festa e Schifano «abitavano» piazza del Popolo, in particolare il Caffè Rosati. Pur incarnando la cultura pop, il suo ottimismo e il glamour, ne rappresentavano allo stesso tempo il lato oscuro, votati a forme di autodistruttività paragonabili a quelle delle rockstar. Pittori maledetti, vestiti di nero: «maestri del dolore» li soprannominò neanche troppo scherzosamente Plinio De Martiis, gallerista de La Tartaruga, parafrasando il titolo delle dispense illustrate I maestri del colore che cominciavano a uscire in edicola.
Via Veneto è la Roma della Dolce Vita, di cui ricorre quest’anno il mezzo secolo, anche se quella che appare nel film è stata meticolosamente ricostruita da Federico Fellini a Cinecittà. «Essere stati su La Dolce Vita è come aver fatto il militare assieme» è una battuta attribuita a Marcello Mastroianni, raccontata da Gianfranco Mingozzi nel film Quelli che hanno fatto la Dolce Vita (2009), a sua volta ispirato al libro di memorie di Tullio Kezich.
Il 17 febbraio 1965 a via Tagliamento 9, elegante quartiere Coppedé simbolo dell’eclettismo architettonico, nasce il Piper Club, monumento del beat e della cultura giovanile in Italia. Una delle poche sale da ballo ad avere la voce sull’Enciclopedia Treccani. L’ambiente originale, visibile nelle fotografie d’epoca, era decorato con opere d’arte andate perdute di Piero Manzoni, Andy Warhol, Mario Schifano (lì nacque il ciclo Tutte Stelle del 1967, ispiratore del disco Dedicato a... uscito col nome Le Stelle di Mario Schifano) e di Claudio Cintoli, autore della scenografia del palco.
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Quando finiscono dunque gli anni Sessanta a Roma? Non certo rispettando il calendario naturale, ma probabilmente in anticipo, se consideriamo la perdita dell’innocenza e la consapevolezza di una nuova aspra stagione annunciata dal Sessantotto.
La fotografia del militante armato di pistola e col volto coperto durante gli scontri di Valle Giulia nel febbraio 1968, che farà scrivere a Pasolini parole violente e inequivocabili a difesa dei poliziotti, veri proletari figli del popolo, dimostra che gli anni Sessanta sono davvero finiti.

Ma forse nell’arte quella stagione era terminata persino prima, nel 1967, con la fondazione dell’Arte Povera, il supergruppo italiano dalla prospettiva internazionalista, destinato a cambiare radicalmente il linguaggio dell’arte contemporanea, introducendo nuovi materiali, diversi atteggiamenti, un altro fare. Soprattutto la convinzione che l’arte sarebbe stata strategia di posizionamento, anche politico, e che la beata innocenza degli anni Sessanta sarebbe finita presto nel cassetto dei ricordi.

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