Paolo Giordano
Allora la notizia è questa: Eminem ha deciso di pubblicare il suo greatest hits. E lì per lì, niente di nuovo: in tempi di magra come questi, una compilation non si nega a nessuno, figurarsi a lui che ha venduto sessantacinque milioni di copie in sei anni. Però il cd ha un titolo che la dice lunga, per di più sfruttando quella malinconia che riempie il teatro allultima recita: Curtain call, chiamata del sipario. Dopo, si spegne la luce. Fine. Insomma il re del rap sembra clamorosamente pronto a fare i bagagli e sparire dal proscenio. Sembra. Allora il dubbio è questo: ma è vero? A guardare la copertina, con le rose sul palcoscenico ai piedi di Eminem, le luci fioche, la mossa che ricorda quella dellultimo inchino, sembra il rauco addio di una delle superstar del momento. Ma se si mettono in fila tutti gli indizi, se si cerca di far combaciare le prove, allora qualche sospettuccio salta fuori. Dunque, andiamo per ordine. Nella tournée di Eminem show (2001, oltre diciotto milioni di copie vendute) lui iniziava il concerto saltando fuori da un sipario, nel successivo Encore lui faceva linchino, ora prende lultima ovazione. Un climax studiato da più di quattro anni, allora.
Però cè anche il risvolto umano.
A fine agosto è stata annullata sul tamburo la faraonica tournée che avrebbe dovuto portarlo in Europa. E proprio mentre le voci, maligne come si conviene, insinuavano una crisi di vendita («avevamo previsto arene da cinquantamila posti, ma a trentamila la prevendita si arenava» disse un promoter), il portavoce dellartista, Dennis Dennehy, ha tirato fuori la parolina magica: «esaurimento». Eminem, ossia Marshall Mathers, ossia Slim Shady (i tre nomi con cui si è presentato negli anni), era finito in una clinica vicino a Detroit per depurarsi da unoverdose di tranquillanti. Da solo. Nascosto. Già qualche settimana prima la Detroit Free Press aveva previsto il suo ritiro e la smentita («non vado in pensione») era sembrata stanca anzichenò. Ora questo cd, in cui tutti i suoi brani più famosi (da Stan a My name is) spariscono di fronte a uno dei tre inediti: When Im gone, quando me ne sarò andato. «E quando me ne sarò andato / voi andrete avanti / non rimpiangetemi / gioite ogni volta che sentirete il suono della mia voce».
Insomma, se è una messinscena, complimenti. Ma se non lo è, da quattro anni Eminem rende pubblica la sua psicanalisi. «Continuo a fare lo stesso sogno / spingo Hailie (sua figlia ndr) sullaltalena / Lei continua a urlare perché non vuole che io canti». Poi ancora: «Non è strano che tu non riesca a dormire / prenditi unaltra pastiglia / Sì scommetto che farai così / Tu racconti tutto con il rap, sì, certo mantieniti vero!». Sembra la fine di unepoca, il canto del cigno di una popstar nata per essere raccontata da J. T. Leroy. Figlio di una prostituta tossicodipendente, già pregiudicato prima di raggiungere la maggiore età, portavoce di uno sfascio generazionale che, in metropoli come Detroit, aveva creato anche un altro linguaggio: quello in rima, quello del rap. Eminem è stato il primo bianco a parlare la lingua dei neri. E lo ha fatto senza mezzi termini, con volgarità linguistiche e concettuali, scatenandosi contro sua madre e la sua ex moglie, coinvolgendo tutto il mondo (Bush compreso, che lo definì «pericolo pubblico») in una gigantesca seduta psicoterapeutica per liquidare i conti col suo passato. Ha inventato il «rap sharing», la condivisione globale di un linguaggio riservato fino ad allora solo agli emarginati. Lui era il cattivo assoluto. Il parafulmine.
Poi una lunghissima intervista sul Times (e i testi di Encore, e i video) cambiò la luce dei riflettori, tirando fuori il lato buono del rap gangster, che chiede scusa, che sente il richiamo della figlia, che vuole la concordia anche in un ambiente malavitoso come quello del rap americano. Ora laddio, vero o almeno veritiero: lEminem di una volta, quello folle ed esaltato e fuorilegge, comunque non tornerà più.
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