La costringeranno ad aumentare di peso. Quel tanto che basta per non morire. Con o senza il suo consenso. Da ieri Giulia è ricoverata nel reparto Centro disturbi del comportamento alimentare dell'ospedale San Raffaele. Non certamente per suo volere. La firma per il ricovero è stata messa nero su bianco dal suo amministratore di sostegno, così come stabilito qualche giorno fa dai giudici del Tribunale di Milano ai quali, disperata, si è rivolta sua madre.
Giulia è anoressica. Nella sua cartella clinica c'è scritto che pesa 23 chili, come una bambina di 7-8 anni. Solo che Giulia di anni ne ha venti e ora, se non viene curata, rischia sul serio di morire.
La storia di questa ragazza comincia tre anni e mezzo fa. Dieta, dimagrimento repentino e lo spettro dell'anoressia nella sua vita. «Avevo visto per la prima volta Giulia quando aveva 17 anni - racconta il primario del Centro per i disturbi alimentari del San Raffaele, Laura Bellodi -. Inizialmente aveva deciso di cominciare la cura. Ma dopo poche settimane di ricovero aveva firmato le autodimissioni. Non l'ho più rivista fino a ieri quando me la sono trovata davanti in ambulatorio». Tre anni e mezzo dopo, Giulia è diventata uno scricciolo pelle e ossa, il suo fisico è completamente debilitato, le analisi del sangue oscillano su valori che sfiorano i limiti massimi oltre i quali la vita se ne va per sempre. Serve un ricovero lungo e difficile.
«Lungo perché ci vogliono minimo quattro mesi per far recuperare peso al suo corpo e difficile perché Giulia, come tutte le ragazze anoressiche ricoverate in ospedale verrà monitorata costantemente» racconta il primario. Compresi gli orari di accesso e non accesso al bagno. Giulia però non potrà più decidere di dire basta al trattamento, non potrà più firmare le autodimissioni. Né per lei la madre o chiunque altro che non sia il suo amministratore di sostegno. Il tribunale di Milano ha stabilito che Giulia non è in grado di tutelarsi, mettendo in pericolo la sua vita. A rivolgersi ai giudici è stata la stessa madre di Giulia, medico ginecologo, che dopo la morte del marito ha cresciuto da sola la sua bambina. Fino a quando ha capito che da sola non ce l'avrebbe più fatta ad aiutare la sua ragazza. «Mia figlia muore», ha detto ai giudici del Tribunale. E ha raccontato di tutti i ricoveri, di tutte le illusioni e di tutte le terapie lasciate a metà, ha parlato della fragilità della sua Giulia e di come ormai insieme non riescano più a contrastare la malattia che la divora. E il tribunale ha deciso. Non per un Tso, trattamento sanitario obbligatorio, inutile in questo caso, perché prevede un ricovero di sette giorni prolungabile di altri sette.
«Serviva un ricovero più lungo e senza dover passare ogni volta dalla firma del sindaco per poterlo avere - spiega il primario -. Credo che per Giulia sia la soluzione migliore».
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