Anouk e Philippe: «Che orrore l’amore via sms»

La Aimée e Noiret, in coppia a teatro, impegnati a riscoprire le relazioni romantiche: «La scienza avanza, ma è impossibile innamorarsi attraverso una e-mail»

Enrico Groppali

da Parigi

Sul palcoscenico, per espresso volere di Sandrine Dumas, erede in linea diretta del grande Alexandre, regna solitaria e vagamente inquietante un’imponente scrivania di palissandro cui sono accostati due sedili curuli. E l’atmosfera è quella di un severissimo consiglio d’amministrazione o quella, assai più temibile, della convocazione di un concistoro. Per fortuna subito fugata dalla classe indiscutibile di Anouk Aimée e dalla placida bonomia di Philippe Noiret che entrano dal fondo tenendosi per mano. Prima di sgranare, per la gioia dei fans che affollano da oltre duecentocinquanta sere i 728 posti del teatro della Madeleine, la lunga litania delle accuse roventi e delle tenerissime confessioni amorose che costellano uno dei copioni più fortunati degli ultimi anni. Quel Love letters di Albert Ramsdell Gurney che ha fatto il giro del mondo spremendo lacrime nei fazzoletti delle spettatrici più sensibili ma commuovendo, al loro fianco, persino i loro inappuntabili compagni.
Come mai un successo simile nell’era della tecnologia avanzata e dell’intelligenza artificiale, signor Noiret e signora Aimée?
NOIRET: «Credo proprio che la sua puntualizzazione, tecnologia e intelligenza artificiale, sia il nodo della questione. La gente è spaventata dall’inaudito progresso della scienza, che se da una parte ci regala qualche decennio di vita in più, dall’altra rischia di sottrarci ogni giorno che passa l’unica ricchezza che compete a noi umani: l’emozione. Dove è finito, mi chiedo, lo stupore gioioso della primavera che, nel ’49, quando sotto la direzione di Roger Blin studiavo come un matto i testi di Beckett sotto un tendone improvvisato alla periferia di Versailles, mi faceva restare a bocca aperta dimenticando la parte?».
AIMÉE: «È vero, Philippe, gli uomini proseguendo su questa strada stanno perdendo se stessi. Te lo dice una che è stata accusata di qualunquismo da tutta la stampa fin dal ’66, l’anno in cui ho girato Un uomo, una donna, campione d’incassi e Oscar per il miglior film straniero, ma brutalizzato in patria e fuori dai critici. Eppure, se mi è concesso tornare indietro di quarant’anni, fin da allora cominciava quella corsa sfrenata all’edonismo che oggi porta i giovani a comunicare a mezzo computer ignorando a bella posta il valore di uno sguardo o la ricchezza di un sorriso. Ma come si fa, mi dico, a innamorarsi attraverso la messaggeria di un’e-mail?».
Mi avete convinto. Anche se in Love letters gli sconsolati protagonisti che incarnate con tanta impressionante dedizione comunicano tutta la vita per lettera, travolti dai reciproci impegni. È o non è una contraddizione?
NOIRET: «In un certo senso lo è. Ma riflettiamo un momento. Cos’ha rappresentato per tanti anni l’appassionato epistolario tra due esseri umani? Cosa se non il reciproco svelarsi del desiderio, cosa se non la messa a nudo di due anime che non avevano la possibilità di vedersi? Senza gli epistolari, cosa sapremmo delle intime delusioni di Virginia Woolf o dei tormenti di Schiller?».
AIMÉE: «Io vado ancora più in là, Philippe. Per me lo scambio di lettere tra due innamorati costretti a vivere lontano uno dall’altro non è poi così diverso da quello che noi attori viviamo davanti alla macchina da presa. Me lo spiegò Fellini all’epoca della Dolce vita quando, davanti alla difficoltà di esprimermi in un primo piano, mi disse: “Anouk, quando ti inquadro non pensare al personaggio ma a te stessa, come se stessi scrivendo un biglietto al tuo amante. Solo quando scriviamo, ci dimentichiamo di noi stessi”. Da allora, ho fatto tesoro di questa esperienza».
Come mai da qualche tempo sia lei, Monsieur Noiret che lei, Madame Aimée, avete trascurato il cinema a favore del teatro?
NOIRET: «Forse per la vecchiaia. Che è, a suo modo, una ricchezza, dato che permette a un attore di fare quel consuntivo che il cinema non ti consente. Intendiamoci, se Chabrol mi chiama, come sta facendo in questi giorni, corro subito da lui. Senza dimenticare però il mio Victor Hugo. Perché la gioia che mi trasmette leggere in pubblico Les Contemplations è un privilegio che nessun cineasta mi potrà mai offrire».
AIMÉE: «Io sono ancora più drastica, pur adorando il cinema, sia da attrice che da spettatrice. Anche se non ho mai pensato che la carriera dovesse condizionare la mia vita privata. Tanto è vero che dopo la delusione di Justine, il film girato a Hollywood nel ’69 con George Cukor per sette anni sono stata solo la moglie felice di Albert Finney. Oggi, per strapparmi all’ozio che subentra dopo tante cattive abitudini da parte dell’industria cinematografica, ci vorrebbe solo l’originalità e lo charme di un nuovo regista.

Ma dove trovare un altro Robert Altman che in Prêt-à-porter mi volle nei panni di una stilista che, per protesta contro la mercificazione della moda, mi faceva presentare un défilé di modelle nude dalla testa ai piedi?».

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