Gli anti premier in gonna solo per tentare la spallata

Urlano, ballano e cantano nell’acquasantiera dell’indignazione. Ma in realtà scrutano con un misto di speranza e di angoscia la sabbia nella clessidra del berlusconismo. Le donne - e gli uomini che le spingono sulla prima linea di oltre duecento piazze - aspettano la liberazione dal 1994. Sono passati diciassette anni e se si guardano allo specchio hanno qualche ruga in più, ma l’imperativo è sempre lo stesso. E allora va bene anche la dignità della donna, tolta frettolosamente dalla naftalina come un vestito di gala mai indossato. «Se non ora quando?», è la domanda che si trasmettono l’un l’altra, sperando che questa sia la volta buona. Ci sono le attrici, le scrittrici, le intellettuali, le RosyBindi, le SusanneCamusso, le GiulieBongiorno, c’è tutto l’armamentario vecchio e inedito, giovane e attempato, in grigio e colorato, dell’antiberlusconismo militante.
Duecentotrenta manifestazioni in simultanea, come nemmeno nei tornei internazionali di scacchi, un milione e passa di persone, i numeri sono quelli di un successo spettacolare. E il Rubygate vale quanto l’articolo 18 dell’epoca Cofferati, la nuova mobilitazione è apparentemente apolitica, trasversale, senza simboli e bandiere. Ma tutti, pardon tutte, provano come Mago Merlino ad agitare quella clessidra e vorrebbero esorcizzare quel filo di sabbia, alimentato dal voto popolare e da nient’altro, che continua a scendere e non ne vuole sapere di finire. La Bindi tuona: «Il Paese si merita di più», la Bongiorno va più in profondità: «Il problema è quando i festini diventano lo strumento per la selezione della classe dirigente», la Camusso, con il piglio di generalessa del sindacato, punta il dito: «La misura è colma». Insomma, si aggiornano i tempi ma la colonna sonora è sempre la stessa. Giù il Cavaliere. Giù dal piedistallo su cui, anche se alle donne della piazza non risulta, lo ha issato il voto.
L’indignazione e la dignità. Per un game over a tavolino. Questo Paese ha assorbito di tutto, ha calpestato tutti i comandamenti della tradizione, ha elevato il gusto personale a criterio definitivo per la scelta morale, ora l’inchiesta sul bunga bunga risospinge in superficie virtù desuete, sentimenti di candore virginale, rigurgiti femministi. Sfilano le OttaviePiccolo e le FrancheRame, icone in perenne esposizione, a loro si affiancano volti nuovi: una grecista come Eva Cantarella a Milano, una suora a Novara, ragazze che mostrano orgogliose alle telecamere di Sky la fronte su cui è inciso il più facile dei calembour: «Minettiti».
La piazza è fatta così. Sente il sangue della vittima, sente che la grande battuta di caccia, il safari cominciato alla procura di Milano fra il novembre e il dicembre ’94, potrebbe finalmente arrivare a conclusione, e si eccita. È sempre stato così. Anche se le facce sono angeliche, e poi i volti sono divertiti, ironici, scanzonati, ma fino a un certo punto. Perché non ci sono le insegne dei partiti, ma ci sono cartelli eloquenti, fin troppo, da Carnevale di Viareggio: «Berlusconi così». E si vede il premier dietro le sbarre, un sogno cui Repubblica ha cercato di dare un fondamento giuridico. Morale e manette: «I have a dream», e subito si nota un Berlusconi ben ingabbiato. L’indignazione è a senso unico. Nei radar c’è un solo obiettivo: radere al suolo villa San Martino. Come se il riscatto e anzi il compimento di una, due, tre generazioni di donne possa giungere solo espugnando la reggia di Arcore.
Sbarre, celle e galera. La piazza rosa, anche se mostra lineamenti angelici, ha le idee chiare. Certo, nessuno vuole sottovalutare l’impatto devastante che il Rubygate ha prodotto sul Paese e nemmeno nascondere sotto il tappeto le pagine avvilenti che si alzano dall’inchiesta. Ma questa è una scorciatoia in gonna e rossetto. È l’opposizione che prova a entrare nei palazzi del potere, i Di Pietro, i Bersani e i Vendola che si mischiano alle ragazze dentro il cavallo di Troia della questione femminile. La piazza è gentile, ma il suo scopo è la fine di un’epoca. Tutto legittimo, ci mancherebbe. Ma Berlusconi dovrebbe essere sconfitto nei seggi, non sventolando sciarpe bianche e cartelli irridenti: «Ruby da vent’anni». Le donne che aprono gli armadi e tirano fuori antichi ideali, finiscono con l’essere le truppe mandate avanti a eliminare il nemico. E a urlare slogan imposti, per parafrasare Piero Ostellino, dalla tirannide dei luoghi comuni.
Gonne, minigonne, balli e ballate. Ma alla fine quel che conta è la clessidra. Meglio mandarla in pezzi che sopportare un’altra stagione dentro l’odiata cornice del berlusconismo. «Se non ora quando?».

Già in autunno la grande festa era stata apparecchiata, la maggioranza sembrava svanire, i giornali erano infarciti di citazioni storiche e salutavano in ordine sparso l’arrivo tanto atteso del 25 luglio se non del 25 aprile. Poi, in modo rocambolesco, l’argine aveva retto. Ora arriva il Rubygate a dare una mano. Prontamente chiusa nel guanto dell’indignazione.

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