Per unOlimpiade, quella invernale di Vancouver, su cui è da poco calato il sipario, eccone servita subito unaltra, che, festosa e goduriosa, apre al pubblico i suoi dorati battenti.
È lOlimpiade dellItalietta golfistica, quella nella quale la specialità regina è il salto sul carro del vincitore, dove per vincitore si legga il nome di Matteo Manassero.
Due le altre discipline ammesse di diritto: la staffetta allelogio sperticato (di M.M.) e il lancio del cappello (sulla testa di M.M.). Il tutto condito da un rinnovato spirito decoubertiniano: limportante è partecipare, sì, purché: 1) non si esca mai dal coro belante degli entusiasti; 2) non si arretri dun passo nella fenomenalizzazione del campioncino.
Ora. Il problema è che lesperienza ci dovrebbe aver insegnato che in tutto questo seguire pedissequamente il gregge infervorato, prima o poi si rischia banalmente di calpestare qualcosa di
sgradevole. E non vorremmo mai e poi mai che sia il delizioso nonché talentuoso veronese a pagarne lo scotto (o comunque a finirci
sopra).
Abbiamo già visto dovè andata a parare la bella Carolina Kostner: a furia di tripli axel e doppi tolup doveva assaggiare fama e gloria imperiture; è finita che a furia di triple e doppie culate, lunica cosa che ha assaggiato è lirriverente durezza del ghiaccio. E anche se lei non ha mai scalato (le vette del mondo), il gregge degli adulatori invece ha scialato (in paillettes e lustrini, ma anche in profezie ottimistiche, coreografie hollywoodiane e sogni in cinemascope).
Ora lasciamola/lasciatela stare. Auguriamole solo di non conoscere mai lunica caduta che macchia veramente: la caduta di stile.
Dunque: pressione. Attenzione. Ossessione. Quando queste Erinni malvagie, risvegliate da un eccessivo chiacchiericcio terreno, si alleano, ciò che il campione sa fare meglio, crudelmente si trasforma nel suo peggior nemico. In unIdra spietata da cui cercar riparo. In una Cariddi ghiotta di sogni e speranze. In uno zaino pieno zeppo di fardelli e responsabilità, invece che di libri, astucci e quaderni.
Ora. Mancano poche settimane allesame del Masters e al conseguente passaggio di Matteo Manassero al professionismo. Allinizio della sua nuova vita. Perché di questo si tratta: di una nuova vita in cui lasciarsi alle spalle il certo per lincerto. In cui loro conquistato allimprovviso diventa stagno. La fama polvere. Il divertimento lavoro.
Ciò che si è, non lo si è più.
Bisogna reinventarsi un nome. Costruirsi una carriera. In una parola: partire da zero. La strada dunque è più che mai in salita, impervia, rude in certi tratti. Occorrono serenità, soprattutto, e umiltà, in questo cammino.
Lasciamo dunque Matteo nelle mani sapienti di chi lha portato fin qui.
Quello che finora abbiamo conosciuto di Manassero ci ha lasciato pieni di speranza. Commossi e fieri per essere italiani.
Ma ora basta: occorre che tutti noi, ultrà del green, spegniamo i riflettori su questo figlio unico del golf azzurro; che la smettiamo di stritolarlo nellitalica morsa traditrice del «predestinato a tutti i costi».
Il mestiere del Messia è la professione più complicata del mondo e non è mai giusto che un teen ager si ritrovi, suo malgrado, investito come un piccolo Buddha da questa pesantissima responsabilità.
Lasciamo invece che Matteo respiri. Cresca. Sbagli. Maturi.
Finiamola di premiarlo, lustrarlo e osannarlo.
Basta.
Dobbiamo imparare ad accettarne gli errori, quando ci saranno; e assaporarne le vittorie, se verranno. Il tutto con lo stesso, identico animo zen.
In una parola: non lasciamo che troppe pressioni e aspettative facciano di Matteo Manassero unaltra Carolina Kostner.
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