Roma«Ora dormo vestito e con lo zaino». Nel giorno del grande terremoto in Giappone, a Tokyo si trovava anche un aquilano, Roberto Busilacchi, di 23 anni. Al momento della scossa stava tenendo una lezione di italiano: «Ho visto la paura dei giapponesi, che sono abituati al terremoto. Le scosse continuano, sono sempre più forti».
Roberto era lì, ma AllAquila, a Paganica, a Onna, ieri hanno vissuto la stessa paura del loro terremoto, lo stesso sapore, lodore. La notte tra il 5 e il 6 aprile di due anni fa. Le 3.32, unora diventata il nome di un comitato, uno slogan. Foto simbolo di due lancette immobili sui campanili spezzati delle piazze in una notte illuminata dalla luna. «Cera un chiarore durante la scossa - racconta Marzia - che faceva splendere i profili delle case». E poi il buio improvviso, una polvere nera, «le grida, i singulti». «Non si trovavano nemmeno le giacche, e così scesi solo con le ciabatte». Ora è Vincenzo a raccontare. Sono due voci da Onna, il paese a dieci chilometri dallAquila dove un abitante su quattro non cè più. Ricorda solo chi è rimasto, e lo fa con la stessa frenesia visiva del primo giorno.
Racconta Vincenzo Angelone, presidente della pro loco di Onna, che i cambiamenti sono piccole liturgie dellansia, una paura che ritorna come la sera, ma anche «un modo di vivere in maniera più attenta», con latteggiamento di chi sa «che in qualsiasi momento potrebbe accadere qualsiasi cosa». Questo fatalismo , doloroso e vitale, per gliaquilani è il filo conduttore della nuova esistenza. «Attenzione anche per il territorio. Ora i tetti non si costruirebbero più in un certo modo...». La paura è «quella sete violenta», dice Marzia Masiello, promotrice del comitato di Onna: «Il mio compagno mi strinse talmente forte che i lividi mi rimasero sulle braccia per molti giorni». Furono secondi più lunghi di qualsiasi calcolo umano del tempo: «Recitai due Ave Maria. Il mio istinto fu pregare».
Raccontano a Onna e allAquila che chiunque di loro sa riconoscere i respiri della terra. Interpreti «le vibrazioni del pavimento, un colpo di vento sul vetro, i cani che abbaiano». Diventi una cellula a contatto con un ritmo intimo delle cose.
La casa di Marzia, costruita dal papà operaio, è lunica rimasta in piedi di quelle che la circondano. Per uscire dal buio bisognava «arrampicarsi su una montagna di detriti alta due metri». Le manie sono «consultare siti dei terremoti due volte al giorno», racconta Vincenzo.
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