Sabrina Cottone
nostro inviato a New York
Giù la maschera ed ecco Arlecchino, con i capelli grigi e i suoi settantacinque anni sbattuti in faccia alla New York a caccia di giovane e nuovo. Giù la maschera, tutti in piedi e mercoledì sera all'Alice Tuly Hall arriva l'applauso finale che consacra Ferruccio Soleri grande successo off Broadway. L'attore che da quarantacinque anni è Arlecchino si gode l'ennesima soddisfazione: «Ho sentito un'enorme partecipazione, una sintonia perfetta. Come nell'antica commedia dell'arte, la forza della maschera prevale sulle parole. Un tempo c'erano dialetti diversi, oggi lingue differenti, il nostro linguaggio rimane lo stesso: fisico e recitazione».
In questi giorni le stelline dei critici e il tutto esaurito del pubblico hanno costruito per Goldoni reinventato da Giorgio Strehler un palcoscenico simile a quello di The Produrcers, remake teatrale del classico anni Sessanta di Mel Brooks, o di Wicked, il mago di Oz visto dalla parte della strega. Sono i due musical che vanno per la maggiore e anche Arlecchino servitore di due padroni appassiona il pubblico della prima come una specie di raffinato musical italiano: la melodia del dialetto veneto, i duetti di Clarice e Silvio, i balletti di Pantalone e del Dottore, le acrobazie di Arlecchino a scatenare risate continue. Il risultato è una commedia che magicamente supera i confini della lingua e non solo grazie ai sovratitoli che scorrono discreti. «È come andare all'opera, però si ride» i commenti da foyer. In più è tutto molto italiano e qui è ancora la passione del momento.
In platea c'è Stephen Sondhaim, uno dei più noti compositori di Broadway, Darin Mehta, direttore della New York Philharmonic orchestra e fratello di Zubin, Harvey Lichtenstein, fondatore della mitica Brooklyn Academy of Music. E con tanto di cappellino da baseball Michail Barishnikov, la leggenda della danza diventato star tv con Sex and the City, dove è l'ultima passione di Sarah Jessica Parker nella serie simbolo della Manhattan cool. Insomma, l'Arlecchino del Piccolo Teatro di Milano è quello che con parola brutta ma efficace si chiama evento. Parola di Nigel Redden, direttore artistico del Lincoln Center Festival che ospita l'Arlecchino: «Sono bastati cinque minuti e il pubblico era nella performance».
Adesso, dopo le quattro serate newyorchesi, la sfida è il Midwest perché la regia di Strehler (con il sostegno della Arcus, del Comune di Milano e di generose contribuzioni private come quella di Federica Olivares) affronta il Colorado, a Colorado Springs, e poi in autunno il Minnesota e l'Illinois, con recite a Minneapolis e Chicago oltre che nella più «facile» California, dove farà sosta a Los Angeles e Berkeley.
Ferruccio Soleri è pronto per la conquista del West. Ogni giorno, come sempre, si allena per salti ed equilibrismi sul palco. Racconta: «Mi sentivo giù di voce, ma la risposta del pubblico mi ha dato forza». Forse perché, come dice Paolo Bosisio, professore di storia del teatro ed esperto del Piccolo, «Soleri non recita Arlecchino, è Arlecchino, è un miracolo, l'ultimo comico dell'arte, un attore che per una vita intera è il suo personaggio». Soleri racconta la stessa cosa raccontando se stesso: «Sono andato in scena anche il giorno in cui hanno seppellito mia madre. Appena salgo sul palcoscenico mi passa tutto: male, dolori, persino la fame». Ecco perché dopo quarantacinque anni da truffaldino non si è stancato di prendere bastonate e strappare cambiali: «Cerco di far credere di avere l'età di Arlecchino, continuerò a recitare finché ne sarò in grado».
Un fenomeno italiano che ha conquistato gli americani, con ampi articoli sul New York Times oltre che sulle riviste specializzate. È stato proprio a Manhattan, al City Center Theater, che Soleri è stato per la prima volta l'Arlecchino di Strehler. Era il 1960: «Ero il sostituto di Marcello Moretti, sono andato in scena per ragioni sindacali: il titolare non poteva fare troppe recite».
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