Armi e soldi in cambio di petrolio La Cina protegge Bashir il boia

Omar al Bashir, il presidente sudanese accusato di crimini di guerra, è sceso in piazza a Khartum scagliandosi contro gli Stati Uniti, Israele e l’Occidente colonialista. A dargli man forte ci hanno pensato gli amici cinesi che hanno chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di congelare l’ordine d’arresto della Corte penale internazionale per la tragedia del Darfur. Non avrebbe potuto essere diversamente: il Sudan è la porta d’ingresso dell’espansionismo cinese in Africa. Pechino, in cambio di petrolio ha fornito armi e soldi al regime di Bashir ed è il suo alleato più prezioso.
Ieri migliaia di persone si sono radunate davanti al palazzo presidenziale di Khartum. Il generale-capo dello Stato ha arringato la folla agitando in aria il bastone del comando che porta sempre con sé: «Diciamo ai colonialisti che non soccomberemo – ha tuonato Bashir - non ci sottometteremo, non cadremo in ginocchio. Siamo leoni e abbiamo le nostre tigri». La folla in visibilio ha risposto inneggiando ad Allah e gridando «abbasso gli Usa». Il presidente incriminato ha proseguito «sono stato accusato di genocidio da chi ha provocato la guerra in Vietnam e ha lanciato la bomba atomica in Giappone». Poi ha affondato il colpo: «Chi mi accusa è amico di Israele. I veri criminali sono in Europa e negli Stati Uniti». Non a caso ieri è arrivata a Bashir la solidarietà della Siria e di Khaled Meshal, il capo dell’ala dura di Hamas in esilio a Damasco mentre il governo sudanese ha espulso 13 organizzazioni umanitarie accusandole di aver fornito testimoni dei massacri in Darfur alla Corte penale internazionali. Fra queste le più note Medici senza frontiere, Oxfam, Care, Save the children. Secondo il segretario dell’Onu Ban Ki Moon si trattava di «presenze vitali per sostenere 4,7 milioni di persone in Darfur».
Russia e Iran hanno detto di noi la mandato d’arresto, mentre la Cina è corsa in aiuto di Bashir esprimendo «rammarico e preoccupazione di un peggioramento della situazione». Un comunicato del ministero degli Esteri di Pechino auspica «che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu chieda alla Corte penale internazionale di sospendere le udienze per questo caso». La Cina importa circa i due terzi del petrolio sudanese e ha costruito l’oleodotto che porta il greggio dal sud a Port Sudan. Pechino entra nel business petrolifero sudanese nella seconda metà degli anni ’90. Il connubio è anche politico e abbraccia in prima persona al Bashir. Nel 2007, il presidente cinese Hu Jintao, durante la sua visita in Sudan, cancellò milioni di dollari di debiti del Paese africano. E firmò un mega prestito ad interessi zero per il nuovo palazzo presidenziale di Khartum. Da allora la manodopera cinese ha invaso il Sudan e costruito aeroporti, strade, alberghi, città ed infrastrutture. Pechino ha inviato anche 350 Caschi blu per l’asfittica missione dell’Onu in Darfur. E con l’altra mano fornito armi in cambio di petrolio come aveva fatto durante la lunga guerra fra nord e sud Sudan. Lo scorso anno un’inchiesta della Bbc scovò uno dei camion militari cinesi, Dongfeng, catturati dai ribelli nel Darfur. Facevano parte di una partita di 212 mezzi, che le Nazioni Unite cercavano disperatamente per denunciare la violazione dell’embargo di Pechino. Sui camion, una volti giunti in Sudan venivano montate le mitragliatrici antiaeree destinate a seminare morte nei villaggi del Darfur.
La Bbc, grazie a foto satellitari, ha anche individuato i caccia cinesi A5 Fantan nell’aeroporto di Nyala. Pechino ha venduto gli aerei ed ha addestrato i piloti sudanesi nelle tattiche di bombardamento.

Lorenzo Bodega, vicepresidente della Commissione diritti umani del Senato, non ha dubbi: «La richiesta di Pechino di sospendere l'arresto del presidente Bashir è solo ed esclusivamente di interesse economico per la perdita del business in Sudan, che la Cina ha da 10 anni saldamente nelle sue mani».

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