Armstrong si ritira «Non voglio monumenti»

Questa volta non dovremmo vederlo più con un numero sulla schiena, né al Giro né tantomeno al Tour o alla Vuelta. Lance Armstrong continuerà a correre per diletto solo negli Stati Uniti. L’annuncio dal palco di Adelaide, dove ieri si è concluso il Tour Down Under (vinto dall'australiano Meyer, mentre il texano ha chiuso in 65ª posizione), in un’atmosfera ben diversa da quella del 2005, quando il fuoriclasse americano, appena conquistato il settimo Tour de France consecutivo, annunciò in mondovisione l’addio alla corse. «Adelaide mi mancherà - ha commentato -. Lascio con la consapevolezza d’aver dato il meglio di me stesso e non sento la necessità che mi diano una targa per ciò che ho fatto o che mi facciano una statua».
La verità è che monumento era, sei anni fa, quando salì sul podio dei Campi Elisi da autentico punto di riferimento del ciclismo mondiale. Poi la decisione di tornare alle competizioni, per inseguire un ottavo Tour che non è arrivato, ma in compenso gli sono piovute addosso ogni genere di inchieste sul doping (le accuse da Greg Lemond e Floyd Landis), che oggi lo rendono uno dei corridori meno credibili sul globo terracqueo. Era a tutti gli effetti un monumento, ma per quell’insaziabile desiderio di onnipotenza ha fatto di tutto per scendere dal piedistallo e ributtarsi nella mischia.
Per lui si è trattato dell'ultima trasferta ufficiale. Adesso Armstrong resterà negli Stati Uniti, dove l'investigatore che da anni indaga su di lui, l'agente della Food and Drug Administration Jeff Novitzky, è tornato recentemente all'attacco.

Per l'ennesima volta media importanti come il New York Times, Sport Illustrated o la Cnn, sono tornati a mettere in dubbio le vittorie di Armstrong, accusato da alcuni suoi ex compagni di squadra, secondo i quali anche lui nel corso della carriera sarebbe stato toccato dal doping. Per questo non gli faranno un monumento. E Lance lo sa bene.

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