Arresti, condanne e deportazioni La Cina stringe il cappio sui Giochi

Attivisti in manette, scontri di piazza. E chi risponde alle domande dei giornalisti va dentro

Arresti, condanne e deportazioni La Cina stringe il cappio sui Giochi

Gli avevano spiegato che con le Olimpiadi tutto sarebbe cambiato, che avrebbe potuto incontrare i giornalisti, in piena libertà. Yu Changwu, di solito così diffidente ci aveva creduto, e da contadino un po’ all’antica si era regolato di conseguenza. Da tempo guidava la protesta degli agricoltori nella sua terra, regione settentrionale dello Heilongjiang, per questo ne aveva approfittato per accompagnare lassù un gruppo di giornalisti per spiegare, perchè, insieme ad altri 40mila contadini, aveva firmato un documento che chiedeva il ritorno nelle loro mani della terra coltivata fin lì in modo collettivo, del perchè spettava loro, anche se la legge cinese non tollera nemmeno l’idea della proprietà privata.
Non aveva capito Yu Changwu che se giornalisti stranieri hanno libertà di fare domande a chiunque in Cina, loro, gli intervistati, non hanno invece il diritto di rispondere. Altrimenti il minimo che ti possa capitare è di essere accusato di turbare l’ordine pubblico. Morale: Yu Changwu, è stato assegnato per due anni ai lavori forzati nel centro di detenzione di Jiamusi, dove era rinchiuso da un mese in attesa della sentenza, rigorosamente a porte chiuse. Il reato per cui è stato condannato non è aver guidato la protesta ma aver parlato con i giornalisti. Una volta si diceva domandare è lecito, rispondere è cortesia, la Cina di oggi si è inventata l’intervista post moderna e vagamente dadaista: domandare è lecito, rispondere è reato.
Hu Jia invece era a casa sua, il 27 dicembre scorso, quando una ventina di poliziotti si sono presentati davanti alla porta. Silenziosi, gelidi, sbrigativi si sono limitati a tagliargli tutte le connessioni Internet, i cavi del telefono e ogni contatto con il mondo dopo avergli mostrato un mandato di arresto con l'accusa di «sovvertimento del potere dello Stato». Poi hanno fatto anche di peggio. Hu Jia è blogger e difensore dei diritti dell'uomo, così come Wang Deija, arrestato solo qualche settimana prima di lui: l’hanno chiuso dentro casa con la compagna Zeng Jihyan e hanno buttato via la chiave. Quando i suoi legali, dopo decine di inutili tentativi, sono riusciti a entrare sono stati chiusi dentro pure loro. Domiciliari per tutti. E nelle stesse settimane il giro di vite è stato più duro del solito. Avvocati e attivisti sono stati imprigionati senza processo, uno di loro, Guo Feixiong, è finito in manette per avere pubblicamente denunciato episodi di corruzione tra i funzionari del partito comunista. Persino un film, Lost in Beijing, presentato al festival del cinema di Berlino è stato messo all’indice dalla censura. E la marcia di avvicinamento ai Giochi di agosto ha visto chiudere quasi mille siti internet, sottoporre a misure di isolamento centinaia di attivisti e contare quasi 50mila scontri di piazza.
La Cina è un gigante che ha paura di tutto, dei cellulari, degli sms, dei videomessaggi, dei blog. E qui ad agosto sbarcherà un esercito di contestatori, dagli ecologisti, ai filo tibetani, dai no alla pena di morte a paladini dei diritti civili, che sfrutteranno tutto, dalla rete al mondovisione. Per questo i servizi segreti cinesi hanno già compilato una lista di organizzazioni straniere, pacifiche o no, da tenere sott’occhio, per questo il ministro della Pubblica sicurezza Zhou Yongkang ha ordinato alla polizia «di colpire sodo qualunque forza ostile possa in qualunque modo turbare i Giochi».

Una guerra preventiva che comprende direttive come quella che il governo della provincia orientale dello Shandong ha indirizzato ai dirigenti locali: «Nascondere sempre le verità scomode ed esaltare le notizie positive». Ficcanaso e ribelli avranno quindi dal regime una risposta durissima. E senza nemmeno bisogno di fare domande.

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