RomaIl pugile è chiuso in un angolo, i guantoni in alto a parare il volto. Ciò che resta. L’unica carta sulla quale puntare: l’onestà di uno «mai sfiorato da sospetti di illeciti», che «non ha mai ricevuto nemmeno un semplice avviso di garanzia». Uno «con la coscienza a posto», «la cui buona fede è stata tradita». Gianfranco Fini sospetta ormai del cognato Gianfranco Tulliani: uno, invece, su cui non poter mettere le mani sul fuoco, capace di «negare con forza» persino al marito della sorella. E su di lui «i dubbi restano anche a me».
I colpi arrivano da ogni parte, ed è chiaro che l’argomento che induce il presidente della Camera a scaricare l’inaffidabile «affine» Tulliani mira a essere retorico. La notte passata per gran parte insonne non concede l’abituale aria spavalda. Il presidente della Camera appare provato proprio in quel volto cui ora affida il futuro. Al punto da sembrare pallido, a dispetto dell’abituale colorito abbronzato. La voce ha perduto il piglio secco, si affievolisce nel tono garbato di chi vorrebbe concedere al nemico il beneficio del dubbio e magari la possibilità di un armistizio in armi. «Il gioco al massacro si fermi, fermiamoci tutti prima che sia troppo tardi». È certo la richiesta di un conteggio, ma all’impiedi, non dopo il knock-out che inchioda al tappeto. Per questo Fini si costringe a qualche retromarcia. Si parla di «personaggi torbidi e squalificati», di «faccendieri professionisti (a proposito, chi li paga?)». Ma non più di «007» infedeli, di «servizi di intelligence, la cui lealtà istituzionale è fuori discussione, al pari della stima che nutro nei confronti di Letta e del prefetto De Gennaro».
L’ultima speranza, affidata alla missione dell’onorevole Giorgio Conte in terra veneta, non ha dato i frutti sperati. Un documento da esibire nel filmato web con il nome dell’attuale proprietario della «famosa casa». Ma la «cartuccella» a prova di patacca non arriva: Conte riferisce di buon mattino che l’avvocato Ellero «proprio non può», ancor prima che quest’ultimo dichiari alle agenzie che la casa sarebbe di un suo cliente. La registrazione del video-web così slitta fino a pomeriggio inoltrato. Anche perché, mentre si continua a limare il discorso, i toni sul premier sembrano troppo aspri, e persino il Quirinale pare sia dovuto intervenire per scongiurare il corto circuito istituzionale. A Fini così non resta altro che puntare sulla più precaria delle difese - genere: «comprereste una casa usata da quest’uomo?» - e riversare sul cognato la speranza che non abbia più a che fare con il maledetto immobile. Almeno quel tanto che consenta di calare l’asso a lungo meditato. «Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la presidenza della Camera. Non per personali responsabilità, che non ci sono, bensì perché la mia etica pubblica me lo imporrebbe».
La cornice difensiva è quel che è. Una puntata d’azzardo. Ero all’oscuro, «per quel che so è tutto qui», mio cognato non è un buon soggetto, «mi ha provocato un’arrabbiatura colossale», ha resistito alla «mia insistenza», «non potevo costringerlo ad andarsene, ma certo gliel’ho chiesto con toni tutt’altro che garbati». Ciononostante, non resta che giocarci la faccia. Un rischio che si sperava potesse essere più contenuto, ma che l’incessante attività dell’avvocato Bongiorno non è riuscita a «blindare» del tutto. Una promessa del genere non ammette vie di scampo, Fini lo sa, e con le società off-shore invece non si sa mai. «Personalmente non ho né denaro, né barche, né ville intestate a società off-shore, a differenza di altri che hanno usato, e usano, queste società per meglio tutelare i loro patrimoni familiari o aziendali e per pagare meno tasse», dice. L’allusione, per nulla velata, è al nemico pubblico Silvio Berlusconi. La cui famiglia è proprietaria di quel giornale (il nostro, ndr) che «mi consigliava di rientrare nei ranghi se non volevo che spuntasse qualche dossier anche su di me... Profezia o minaccia?».
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