Enzo Palmesano, ex direttore del quotidiano partenopeo il Roma, ha scritto una lettera a Fini, Schifani e i presidenti dei gruppi parlamentari. Perché?
«Per dire che il prossimo dicembre sono 14 anni che aspetto che Bocchino mi paghi lo stipendio».
Sta dicendo che l’editore non l’ha mai pagata?
«Certo. Sono stato licenziato dal Roma il 15 dicembre 1996 e da allora non mi è stato retribuito un solo giorno di stipendio e neppure il trattamento di fine rapporto».
Racconti.
«Ero in forza al Secolo d’Italia, capo del politico. Un giorno mi proposero di andare a dirigere il Roma, che l’ex ministro delle Poste Pinuccio Tatarella voleva rilanciare».
Come direttore responsabile?
«Sì. Direttore politico Tatarella; editore il suo factotum Italo Bocchino».
E lei accettò?
«Accettai con un accordo politico: tu vai al Roma ma continuerà a pagarti il Secolo».
E così è stato?
«Fino ad agosto sì. Smaltisco ferie, giorni di riposo arretrati e poi il primo settembre attacco al Roma».
Pagato?
«Fino al 30 settembre sì. Dal Secolo. Poi dal primo ottobre avrebbe dovuto pagarmi Bocchino. Solo che intanto mi arriva una lettera di licenziamento per abbandono del posto di lavoro dal Secolo firmata da Franco Servello».
E lei sente puzza di bruciato...
«No perché Tatarella e Bocchino mi rassicurano immediatamente: “Stai tranquillo - dicono - è come se la lettera non fosse mai stata inviata. Siamo nel partito, no? È solo un disguido”».
E lei si mette il cuore in pace?
«Sì. Solo che a fine mese non vengo pagato. Aspetto il mese successivo ma niente. Succede qualcosa il 15 dicembre, invece... Licenziato!».
E perché?
«Perché mi sono opposto al licenziamento di un giovane collega, Alfredo Romano, poi diventato direttore della Discussione».
Una ritorsione?
«Ma certo. Soltanto che a quel punto ho preteso che almeno mi venissero pagati gli stipendi e la liquidazione».
E fa causa?
«Mi sono rivolto al sindacato, all’Associazione della napoletana della stampa a cui ero iscritto e la pratica viene seguita da due avvocati: Porzio e Pulcinaro».
Risultato?
«Dopo anni il giudice mi dà ragione: dal 1 ottobre al 15 dicembre ’96 io ero in forza al Roma di Bocchino e quindi mi spettano, stipendi, liquidazione e mancato preavviso del licenziamento».
Ma di soldi niente?
«Macché. Non ho visto una lira. Così ho scritto ai presidenti di Camera e Senato lamentando la situazione».
Risposte?
«Zero. Da Fini, che mi conosce bene, me la sarei aspettata. Soprattutto adesso che si fa alfiere della legalità».
Chi l’ha epurata?
«Bocchino e Ugo Benedetti, quello dello scandalo Italsanità, di cui Bocchino era amico e che faceva l’amministratore del Roma».
Ma lei ha in mano una sentenza?
«Ma certo. E grazie a questo posso affermare che Bocchino è l’inventore del legittimo impedimento».
In che senso?
«Perché quando iniziò la causa, davanti al giudice, arrivò un documento con carta intestata della Camera dei deputati in cui si diceva che Bocchino non poteva intervenire perché impegnato».
E adesso cosa intende fare?
«Scrivere a Napolitano. L’ho visto giustamente molto sensibile ai licenziamenti degli operai di Melfi».
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