Le Ater laziali «annegano» nei debiti

Un cupo scenario fatto di debiti, mancati incassi, deprezzamento del patrimonio immobiliare. Un disastro, quello delle Ater laziali e della relativa gestione delle case popolari, che emerge dall’«indagine conoscitiva» realizzata dal Cresme, Centro ricerche economiche, sociali di mercato per l’edilizia e il territorio. Il misterioso e inedito studio, cioè, presentato a porte chiuse a dicembre durante una riunione della commissione regionale Casa e Lavori pubblici - argomento di discussione lo stop alla «svendopoli» denunciata dal capogruppo Sr Donato Robilotta - presieduta da Giovanni Carapella (Pd) e di cui proprio Carapella annuncia sul suo sito internet «la presentazione in un convegno pubblico a gennaio».
Un convegno che finora non c’è stato. E, considerando la forza negativa dei numeri, le motivazioni della «melina» della maggioranza sono facilmente intuibili. Lo studio si apre con alcuni dati: «Gli immobili gestiti dalle Ater del Lazio sono ubicati per il 60 per cento nel comune di Roma (54mila), per il 15 per cento nella sua provincia e per il rimanente 25 per cento nelle province del Lazio». Delle unità gestite il 90 per cento (82mila abitazioni) sono di proprietà delle Ater, l’8,8 per cento di proprietà di terzi (Comuni e Demanio) e il 2,4 per cento (2.200 abitazioni) hanno destinazioni diverse da quella abitativa.
Il valore complessivo delle unità immobiliari indicato a bilancio è di circa 2 miliardi di euro, con l’Ater di Roma che da sola «pesa» per 1,2 miliardi di euro. Il valore medio di ogni unità è di 23mila euro. Poi si apre un lungo elenco di dolenti note. I debiti. «I debiti complessivi - si legge - sono di 1,5 miliardi di euro. Di cui 167 milioni con il sistema bancario, 972 milioni nei confronti dello Stato e degli Enti locali per tributi e finanziamenti per nuove costruzioni, e solo 67 milioni nei confronti di fornitori». Ma non è tutto, perché l’87 per cento dei debiti totali è da attribuire all’Ater di Roma, responsabile di ben il 97 per cento dei debiti tributari e del 91 per cento di quelli verso le banche. Per il Cresme, in sostanza, è l’azienda presieduta da Luca Petrucci la vera zavorra.
Affitti, mancati incassi e morosità. Su 100 contratti di locazione stipulati dalle Ater, 83 (71mila famiglie) prevedono un canone mensile medio di 45 euro a famiglia. Una famiglia su cinque (le 13mila in fascia A) paga 7,5 euro di affitto al mese; altre trentamila (fascia B) appena 39 euro e 27mila (fascia C) circa 70 euro. Le restanti 15mila famiglie pagano una media di 189 euro mensili di locazione: ma di queste ben 12mila hanno limiti di reddito superiori ai parametri necessari per mantenere l’assegnazione dell’alloggio. Come se non bastasse, sugli 85 milioni annui fatturati, 30 milioni - pari al 35 per cento dei ricavi - non vengono incassati, tanto che la morosità complessiva dichiarata dalle Ater laziali è di circa 540 milioni di euro e quella dell’Ater di Roma di 460 milioni. Così come non viene riscosso il 72 per cento dei ricavi da locazione di beni diversi dalle abitazioni. Dall’analisi del conto economico risulta inoltre un altro grande squilibrio: su 100 euro fatturati (di cui, ricordiamo, solo 65 vengono incassati), oltre 31 vengono spesi per pagare stipendi.
Poi c’è il punto che riguarda l’Ici e l’emergenza abitativa. «Vista l’esiguità dei ricavi - continua il rapporto - l’incidenza dell’Ici è al di sopra dei limiti di un normale pagamento di imposte: 280 euro annui ad alloggio per circa 22 milioni di euro totali». Tributi che spesso le Ater non pagano ai Comuni per ovvi problemi di liquidità, accumulando enormi debiti come nel caso dell’ex Iacp capitolino.

Inoltre nel quinquennio 2002-2006 le Ater laziali hanno realizzato 802 alloggi: meno dell’uno per cento della produzione edilizia complessiva. A Roma in particolare sono state costruite appena 45 case l’anno. Quindi il Cresme entra nel merito di «svendopoli»: ma questa è già l’altra parte della storia.

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