Morto Marcello Melandri. Da Moggi a L'Aquila, fu stratega dei grandi processi romani

Lo storico penalista romano fu protagonista di alcuni tra i più importanti processi dagli anni ’70 a oggi

Morto Marcello Melandri. Da Moggi a L'Aquila, fu stratega dei grandi processi romani
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Si è spento nella notte tra domenica e lunedì, nella sua Tarquinia, l’avvocato Marcello Melandri, uno dei penalisti più noti del Foro romano e protagonista di alcune delle vicende giudiziarie più significative degli ultimi cinquant’anni. Aveva 82 anni e da tempo aveva scelto di tornare nella città dove era nato, quel luogo che per tutta la vita aveva considerato un rifugio, un buen retiro in cui ricaricare energie e ritrovare se stesso.

Un penalista che ha fatto la storia del Foro romano

Marcello Melandri era una presenza storica della cittadella giudiziaria della Capitale, un uomo che con la sua personalità e la sua professionalità ha contribuito a scrivere un pezzo della storia del palazzo di giustizia romano.

Avvocato appassionato e curioso, aveva coltivato parallelamente un grande amore: quello per la sua Harley-Davidson. Fino a pochi anni fa sfidava pioggia e vento per raggiungere i raduni in giro per l’Europa, come un ragazzo con la voglia di libertà negli occhi. Solo quando il tempo aveva iniziato a chiedergli il conto aveva deciso di rinunciare a quelle avventure. Ma fino ad allora, ogni volta che deponeva la toga, saliva in sella e ripartiva.

La carriera

La carriera di Melandri era iniziata presto, in giovane età, nello studio di Giuseppe De Luca, del quale aveva scritto un ricordo commosso poco più di un anno fa. Fu lì, nelle stanze di via della Conciliazione, che si preparò per uno dei primi grandi casi: la difesa di un imputato coinvolto nello scandalo Lockheed, negli anni ’70. Era soltanto l’inizio.

Il nome di Marcello Melandri sarebbe diventato negli anni successivi indissolubilmente legato ai processi della cosiddetta tangentopoli romana. Tra i casi più celebri da lui seguiti, il processo “Palazzi d’oro”, quello a Bettino Craxi e a Gianni De Michelis, la difesa dell’ex direttore generale della Juventus Luciano Moggi nel procedimento Gea, e quella dell’ex direttore di Rai Fiction Agostino Saccà.

Non solo: Melandri era stato protagonista anche dei processi relativi ai grandi eventi e alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, così come dell’arringa per Francesco De Vito Piscicelli, l’imprenditore che rideva la notte del terremoto dell’Aquila immaginando gli appalti successivi. E ancora, aveva difeso Enzo Boschi, presidente per dodici anni dell’INGV, nell’inchiesta sulla Commissione Grandi Rischi. Un elenco lunghissimo, difficile da completare, tanto era vasto il suo contributo nei più complessi procedimenti giudiziari italiani.

Un’eredità umana e professionale che resta

La notizia della sua scomparsa ha attraversato il Tribunale come un fulmine, lasciando colleghi, magistrati e amici increduli e profondamente addolorati. Al cordoglio della Camera penale si aggiungono ricordi personali che raccontano non solo il professionista, ma soprattutto l’uomo.

"Marcello aveva una caratteristica unica: ti faceva sentire, davanti a tutti, come il suo migliore amico", ricorda il collega Michele Gentiloni Silverij. "Una persona di rara simpatia ed eleganza, uno di quegli avvocati che appartengono alla storia dell’avvocatura romana e, direi, anche alla nostra storia personale", aggiunge Francesco Caroleo Grimaldi.

Cataldo Intrieri, sulla pagina “Lab la politica del diritto”, traccia un ritratto vivido: "Ti dava l’impressione che fosse sempre stato in tribunale e che sempre lo avresti trovato lì. Se non era in aula a riempire lo spazio con battute da romano caustico, era appollaiato sul muretto della piazzetta, a sorvegliare il via vai. Passavi e sapevi che saresti stato colpito dal suo spirito irriverente, ma senza malizia: era lo sfottò di un quirite di lungo corso".

Poi un aneddoto, rimasto inedito: durante un interrogatorio dell’epoca di Mani Pulite, quando il pm Piercamillo Davigo incalzava un imputato battendo le mani sul tavolo, Melandri non esitò a interromperlo, sbattendogli il codice davanti per ricordargli le regole. Senza fronzoli, con la naturale improntitudine che lo contraddistingueva.

Dietro la verve e l’umorismo, però, si celava una profonda sensibilità. "Aveva forte il senso della professione e degli affetti", scrive Intrieri, ricordando il giorno in cui vide Melandri in toga in chiesa per l’addio a Titta Madia: un gesto di rispetto che contrastava con il suo disincanto apparente.

Una passione trasmessa ai figli

A raccogliere la sua eredità professionale sono i due figli, Michelangelo e

Matteo, che da lui hanno ereditato la passione per la giustizia e la dedizione al mestiere. Un lascito prezioso, l’ultimo abbraccio di una vita vissuta con intensità, ironia e un rigore profondo mai ostentato.

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