
"Sembrava un classico caso di crisi da astinenza, con tutti i sintomi tipici di chi sta smettendo una sostanza psicotropa. Solo che, in questo caso, a mancare era... lo smartphone". A raccontarlo è il professor Gianluca Rosso, intervistato oggi dal Corriere, medico chirurgo specializzato in psichiatria e docente associato presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Torino, in servizio all’ospedale San Luigi di Orbassano. Era di turno quella sera in cui, al pronto soccorso del reparto emergenze, si è presentato un ragazzo adolescente in forte stato di agitazione psicomotoria, accompagnato dai genitori visibilmente preoccupati.
Il no dei genitori
Il motivo? I genitori, ormai provati dall’uso eccessivo e incontrollato che il figlio faceva del cellulare, avevano deciso di toglierglielo, imponendogli uno stop forzato. Una scelta che ha innescato nel ragazzo una reazione paragonabile, nei fatti, a quella di una persona in crisi d’astinenza da sostanze. "Può sembrare sorprendente, ma il rapporto che si crea con lo smartphone è molto simile a quello che si sviluppa con sostanze come l’alcol, la nicotina o le droghe", spiega il professor Rosso. "Tutti questi elementi agiscono stimolando costantemente il sistema dopaminergico del cervello, che si abitua a questa sollecitazione continua e arriva a percepirla come un bisogno imprescindibile".
Scoperta la dipendenza
Una volta giunto in pronto soccorso, al ragazzo sono state somministrate terapie ansiolitiche di forte impatto, sia per via intramuscolare che endovenosa. Dopo aver superato la fase acuta della crisi, è stato dimesso e rimandato a casa. "Il ricovero è previsto soltanto nei casi in cui siano presenti disturbi psichiatrici legati alla dipendenza. — precisa il professor Rosso — In assenza di queste condizioni, l’intervento viene affidato ai Ser.D, i Servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema Sanitario Nazionale". In sostanza, si agisce sui sintomi, non sulle cause. Un limite evidente, soprattutto alla luce della crescente urgenza di costruire un dialogo più strutturato tra ospedale e servizi territoriali.
Il progetto
Un cambiamento, però, potrebbe arrivare da un’iniziativa in corso da parte dell’ASL Città di Torino. "Il sistema delle dipendenze è ancora regolato da leggi ormai superate, risalenti agli anni Settanta, che non riflettono più la realtà psicologica e sociale degli utenti di oggi", ha dichiarato Carlo Picco, direttore generale dell’ASL torinese, intervenendo durante un incontro pubblico sul tema. Picco ha inoltre annunciato di aver messo a punto "un nuovo modello di intervento, che ho sottoposto alla Regione con l’auspicio che venga inserito nel prossimo piano socio-sanitario".
Di cosa si tratta
È stato lo stesso Picco a illustrare nel dettaglio di cosa si tratta. "A Torino abbiamo avviato una sperimentazione basata su un Dipartimento integrato delle dipendenze, che riunisce al suo interno psichiatria, neuropsichiatria e psicologia - ha spiegato - Si tratta di un primo passo verso un approccio realmente multidisciplinare, in cui le diverse competenze lavorano in sinergia anziché restare isolate. Una direzione che si sta rivelando efficace e che oggi è più che mai necessaria, considerando che il disagio giovanile ha assunto i contorni di una vera e propria epidemia".
La sperimentazione
Nel modello sperimentale promosso dall’ASL Città di Torino è prevista anche la creazione di una struttura complessa che segua il paziente lungo tutte le fasi della vita: dall’infanzia all’adolescenza fino all’età adulta. "L’obiettivo è garantire continuità nella presa in carico, evitando che le persone restino sole nei passaggi più delicati del loro percorso di cura», ha sottolineato Picco. Un approccio che si inserisce in un’azione più ampia, perseguita anche a livello nazionale.
Durante il Laboratorio sulla Salute Mentale svoltosi ieri a Torino, sono intervenuti anche Alberto Siracusano, professore emerito di Psichiatria all’Università di Tor Vergata, e Giuseppe Nicolò, direttore dell’ASL Roma 5, rispettivamente coordinatore e vice-coordinatore del tavolo tecnico ministeriale sulla salute mentale.
Entrambi hanno evidenziato l’urgenza di adottare una visione integrata, come quella proposta dal modello "One Mental Health", che considera la salute mentale una questione non solo clinica ma anche sociale, culturale ed educativa. Un concetto già al centro del lavoro dell’Intergruppo Parlamentare omonimo, presentato in Senato lo scorso 22 gennaio.