Il volto tirato, la barba incolta, gli occhi assenti di chi ormai pare quasi rassegnato. Sbuca tra le mangrovie della Papua occidentale, accerchiato da un gruppetto di uomini armati di archi, frecce e fucili rudimentali. E sa che questi potrebbero essere i suoi ultimi giorni di vita. Philip Mehrtens, pilota neozalendese di 37 anni, era atterrato sulla pista erbosa di Paro, a due passi da Nduga - la più compromessa e povera tra le province indonesiane - facendo scendere cinque passeggeri della Susi Air, la compagnia per cui lavora.
Il solito tragitto. Certo, i tumulti degli ultimi mesi lasciavano presagire che quello della West Papua - confinante con l'autonoma e certamente più placida Papua Nuova Guinea- fosse un contesto incandescente. Lui però c'era avvezzo. Faceva abitualmente la spola dalla Nuova Zelanda - dove l'aspettano una moglie ed un figlio di dieci anni - per trasportare piccoli gruppi di persone. La prassi era confortante. Non si addentrava, Mehrtens, in quel moderno girone infernale. Una volta scaricati bagagli e passeggeri un rapido rifornimento e poi ripartiva il rullaggio.
Lo scorso 7 febbraio però le cose sono andate diversamente. Appena le ruote gommate del suo velivolo hanno toccato il suolo, un gruppo di ribelli separatisti l'ha catturato e trascinato nella folta foresta circostante. Da lì è cominciata una serie di video tutti rivolti al governo centrale di Giacarta. La sintesi? "Se non ci riconoscete come stato indipendente lo facciamo fuori". L'antefatto è certamente poco noto nella vecchia Europa. A lungo colonia olandese, la Papua Occidentale aveva strappato una faticosa indipendenza nel 1949. L'Indonesia si era impegnata a riconoscerla, salvo poi fare una clamorosa marcia indietro e riannetterla nel 1961, con la complicità degli Stati Uniti. Troppo ricco di materie prime, quel territorio. Troppa gola le riserve aurifere che custodisce, tra le maggiori del mondo.
L'operazione era stata certificata in seguito, nel 1969, dalle Nazioni Unite. Era bastato un referendum farsesco a persuaderle: avevano votato soltanto 1022 leader locali, su un totale di circa 5 milioni di abitanti. Così Giacarta aveva piazzato i gomiti con tutti i crismi. Abbastanza per inferocirsi, ma quei potenti malumori vengono sommersi da un torrente di sangue ormai da sessant'anni di fila. La capitale inviò fin dal 1960 decine di migliaia di indonesiani di stirpe differente a colonizzare il territorio, fabbricando scontri interminabili, fabbrica di circa circa mezzo milione di morti.
Recentemente, dal 2018, i separatisti hanno intensificato gli attacchi, prendendo particolamente di mira gli stranieri. Pare il modo più efficace per farsi sentire, a fronte di una capacità militare quantomeno scarsa. Oggi però a farne le spese è un pilota che non c'entra proprio nulla, come del resto la maggior parte degli ostaggi di ogni storia. L'ONU ha tracciato un ritratto orripilante dei ribelli - copricapo tribali ed una certa sicumera in ogni video - avvisando che non si farebbero scrupoli a torturare e uccidere finanche bambini. Narrazioni da prendere con le pinze, ma intanto quei lugubri avvertimenti - dapprima relativamente preoccupanti - adesso sembrano avvicinare ad una terribile evenienza.
Per scongiurarla, Giacarta ha recentemente organizzato un blitz con 15 militari delle forze speciali, ma la missione per liberare il pilota si è rivelata un flop e si è conclusa con un morto. Philip adesso rischia più di prima.
L'unica fiammella è che i ribelli si rendano conto dell'attenzione mediatica globale che la loro causa sta incassando. Un particolare che, al netto di trattative e operazioni di estrazione intricatissime, potrebbe allungare la vita di Mehrtens.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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