
Insegnare Italiano in un Centro di Formazione Professionale per futuri operai metalmeccanici della bergamasca. Quasi tutti maschi e per il 70% stranieri. Può essere un'avventura affascinante. Per Miriam D'Ambrosio lo è. Ogni giorno che Dio manda in terra. Appassionata del suo lavoro, ne ha condensato l'essenza in un libro, Fuori non è ancora così (Rubbettino editore). Graffiti di vita quotidiana, di umanità, di solidarietà. Il genere può anche ritenersi non originale. L'esperienza dell'insegnamento, soprattutto in condizioni di disagio, è stato l'oggetto di diverse pubblicazioni, film e documentari. Alcuni di essi sono stati grandi successi. Nell'avvicinarsi a questo libro, è bene, però, dimenticarli. Quando si parla di scuola, si calca la mano. Si scrive per suscitare sentimenti forti: d'indignazione ovvero d'ilarità. Il racconto di Miriam D'Ambrosio, invece, è lieve come una carezza. Al più suscita disappunto o, più spesso, un sorriso. I suoi graffiti sono intrisi di rispetto. Per il proprio lavoro e, ancor più, per coloro che ne usufruiscono.
Si tratta di un viaggio nella nuova immigrazione. Anche se ci sono ancora i «terroni»: residuo «paretiano» di un tempo che sta scomparendo. E il racconto non consente pregiudizi di alcun tipo. Il libro non è né «pro» né «contro» . Non ha tesi preconcette. Miriam D'Ambrosio ci introduce nella sua classe, nella quale le gesta eroiche di Achille ed Ettore, il coraggio contagioso di London, le storie ordinariamente fantastiche di Pasolini, le grandiose miserie di Leopardi, interagiscono e si mischiano con i commenti degli alunni. A volte ironici, altre volte amari, altre ancora di inattesa profondità. Quasi sempre rivelatori e dissacranti. Da essi, se il lettore vuole, si possono desumere vere e proprie lezioni di vita.
Miriam D'Ambrosio non ha l'esplicita intenzione di farlo, ma ci dice che l'integrazione è possibile. Le sue storie evidenziano alcuni ingredienti necessari affinché essa si possa compiere. Senza ambire a farne una ricetta; tanto meno una teoria. Perché, anzi, le certezze delle differenti teorie s'inchinano di fronte ai diritti di un'esperienza vissuta. Serve, innanzitutto, formare un gruppo coeso dove il tutto di una persona - bianco o nero, mussulmano o cristiano, straniero o meridionale s'incontri con il tutto di una comunità, che lo aiuti a trarre il meglio dalla propria indole. Serve, poi, non separare l'apprendimento tecnico da quello umanistico. I ragazzi di Miriam lavorano in officina per diventare metalmeccanici. Il loro universo scolastico è fatto, perciò, di utensili e di abilità. Ma è nell'ora di italiano che imparano a vivere; a confrontarsi con le loro realtà ognuna diversa dall'altra. A diventare adulti. E poi, soprattutto, servono maestri. Che amino il loro lavoro. Che ne siano gratificati anziché, frustrati, cercare una rivincita altrove. Magari in politica. Maestri che siano consapevoli di avere a che fare con una materia da trattare delicatamente. Con prudenza e con amore. Merce rara di questi tempi: quella che più manca alle nuove, rarefatte, generazioni di italiani. Esse hanno avuto in sorte un universo più difficile del nostro. Soprattutto perché spesso manca loro chi gli insegni il mestiere del vivere.
Le eccezioni, per fortuna, esistono. E sono quelle che fanno sperare. Le si incontra, magari, più facilmente nell'aula di un professionale della bassa bergamasca che nel liceo di una grande metropoli, un tempo titolato.