
C’è chi muore una volta e chi resuscita ogni volta. La Torino granata (e non solo) celebra i 76 anni della tragedia di Superga: il 4 maggio del 1949 alle 17.04 l’aereo che riportava in Italia da Lisbona la squadra italiana più forte del mondo, capace di inanellare record ancora imbattuti, si schianta sulla collina della Basilica per un errore dell’altimetro dell’aereo. Muoiono 17 giocatori, tre allenatori, tre dirigenti, tre giornalisti (tra cui il padre di Marco Tosatti, storica firma del «Corriere della Sera») e quattro uomini dell’equipaggio. Ecco i loro nomi: Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Giulio Schubert e gli allenatori Egri Erbstein, Leslie Levesley, il massaggiatore Ottavio Cortina con i dirigenti Arnaldo Agnisetta, Andrea Bonaiuti ed Ippolito Civalleri. Morirono inoltre tre dei migliori giornalisti sportivi italiani: Renato Casalbore (fondatore di «Tuttosport»), Renato Tosatti («Gazzetta del Popolo»), Luigi Cavallero («La Stampa») ed i membri dell’equipaggio Celeste D’Inca, Celeste Biancardi e Antonio Pangrazi. Il comandante dell’aereo si chiamava Pierluigi Meroni: milanese, classe 1915, aveva sul petto quattro medaglie al valor militare.
Da allora quella formazione è diventata un ritornello Bacigalupo-Ballarin-Maroso-Grezar-Rigamonti-Castigliano-Menti -Loik-Gabetto-Mazzola-Ossola, la storia dei ragazzi «normali» che stavano ricostruendo l’Italia dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale (con dieci giocatori in Nazionale su 11) diventano leggenda. Qualcuno dice che è il primo lutto collettivo dell’Italia moderna, l’anno zero del calcio italiano, la pietra d’inciampo della memoria condivisa del Paese, che si fermò per onorare quei morti - con un funerale al quale parteciparono almeno due milioni di persone - e una tragedia che poteva anche uccidere la speranza di un Italietta, uscita malconcia e ferita dall’incubo del fascismo e dell’occupazione nazista e che vedeva nel calcio un timido tentativo di riscatto.
In 30mila oggi hanno sfilato per Torino prima di salire a Superga, dove il capitano granata Duvan Zapata leggerà i nomi dei giocatori che da allora «giocano sempre in trasferta», come scrisse Indro Montanelli. Una marea impressionante di persone, nessuna delle quali ha mai visto dal vivo giocare il Grande Torino. Le tristi polemiche sull’assenza del presidente del Torino Urbano Cairo dalle celebrazioni sporcano una giornata che invece a questo calcio dovrebbe dire tanto. Ma così non è.
Superga non appartiene solo alla storia del Torino, una gloriosa società che ha insegnato alle altre squadre il calcio moderno: è stata la prima ad avere uno sponsor, ad avere uno stadio, uno schema di gioco preciso, un bus di proprietà, ad avere un tifo organizzato, a puntare sul vivaio. Era un altro calcio, lontano dalle luci sfavillanti dei posticipi notturni e dell’emozione differita causa Var, persino dalle notti magiche in Europa - territorio semi sconosciuto ai granata - con l’amarezza delle «cinque o sei Coppe dei Campioni che quel Toro avrebbe potuto vincere» come disse l’ex ct della Nazionale Ferruccio Valcareggi.
Superga dovrebbe essere patrimonio di tutto il calcio italiano. Valentino Mazzola è paragonabile a Johan Cruijff per le sue abilità tecniche, dovrebbe essere ricordato tra i grandi del calcio mondiale come Diego Maradona e Pelè, e invece niente. «Ancora adesso, se debbo pensare al calciatore più utile ad una squadra, a quello da ingaggiare assolutamente, non penso a Pelè, a Di Stefano, a Cruyff, a Platini, a Maradona: o meglio, penso anche a loro, ma dopo avere pensato a Mazzola», disse una volta il suo «nemico» Giampiero Boniperti, che si vide cancellare sulla linea di porta da capitan Valentino un gol che sembrava già fatto. «Neanche il tempo di tornare a centrocampo che sentii un boato, Mazzola ci aveva appena segnato...», ricordò alla stampa l’ex attaccante bianconero nel 1989. E invece di Mazzola e della sua carica in campo, di come organizzava questi maestosi giocatori portandoli a quattro scudetti consecutivi e fino a 125 gol segnati in una stagione si parla sempre troppo poco.
Non c’è tempo e non c’è spazio, neanche sui giornali, per ricordarsi le gesta di questa magnifica squadra. Non abbastanza. Mazzola non era una star come Cristiano Ronaldo né un funambolo come Messi o Yamal. È forse questo il motivo per cui l’anniversario di Superga passa sempre quasi sotto silenzio, complice l’ingiusta mediocrità del Toro in classifica, come se fosse un lutto personale e non collettivo.
E sì che il Torino di morti tragiche ne ha così tante - da Gigi Meroni a Giorgio Ferrini - da riempirci un album, tanto che qualche anno fa frammenti del legno delle panche del Filadelfia, brandelli di palloni e della carlinga dell’aereo schiantatosi sono diventate 16 relic card, altro primato del Toro, prima società calcistica italiana con 3mila memorabilia dedicate, autenticate dal Museo del Grande Torino. Quel calcio povero, normale, mai gridato, è morto assieme a loro. Non basterà una fede a farlo resuscitare. E forse è giusto così.