
Il trailer di GTA 6 è uscito, e io e il mio amico eravamo nascosto in un cesso della prigione di Alcatraz. Ieri pomeriggio stavo giocando a Warzone con Zyo, solita partita, solito casino, solite imprecazioni di Zyo che sembrano uscite da un mix di Boccaccio e Trilussa ripassato negli improperi medievali di Udine, stavamo nascosti nei bagni di Alcatraz, accucciati dietro due porte sfondate, mentre fuori si sparavano come in Vietnam. Silenzio teso, io con una fumogena in mano, lui col fucile a pompa pronto solo che ha solo due colpi nel caricatore. A un certo punto mi fa: "Massi, fermo. È uscito". Io: "Che cosa? Chi? Dove?". Lui: "Il trailer. Di GTA 6". Io: "Ora?". Lui: "Ora".
E niente, ci siamo zittiti. Nemici ovunque, gente che urlava nel microfono, e noi lì fermi, in un bagno digitale, a guardare un altro mondo. Risultato? Entrambi: Ah. Poi: mah. Poi silenzio. Sì, il trailer è bello. Anzi, tecnicamente è una roba fuori scala: Vice City sembra viva, pulsante, umida, e Jason Duval, il protagonista maschile, lo vedi mentre ripara tetti, corre in spiaggia, compra casse di birra, riscuote l’affitto a suon di minacce. Lavora per un vecchio spacciatore, Brian Heder, fa il simpatico in giro e poi ti spara. Lucia Caminos, la co-protagonista, esce di prigione con la cavigliera elettronica, sale in macchina con Jason, si baciano, si ricordano una rapina fatta insieme, brindano “ai nuovi inizi” come due influencer con un passato. Fino a che tutto non esplode: sparatorie in strada, inseguimenti in auto, casseforti trascinate sull’asfalto, elicotteri, moto d’acqua, discoteche piene, gangster con sogni da rapper, venditori d’armi fuori di testa, esplosioni in ogni angolo. Tutto velocissimo, tutto patinato, tutto costruito per dire: guardaci, siamo tornati.
Una volta chiuso il trailer ci accorgiamo che siamo ancora vivi, lì, nei cessi di Rebirth Island, e commentiamo che la grafica è stupenda, ma questo l’avevamo già visto nel primo trailer. Qualche dettaglio in più, sì, le bollicine nella birra, l’alluminio che brilla, un paio di dialoghi nuovi, però alla fine è come guardare la foto di un Big Mac sempre più realistica quando muori di fame. Sembra perfetto. Insomma, ti fa solo venire ancora più voglia. E ti fa incazzare.
È quello che vogliono alla Rockstar, in fondo, e il punto non è il trailer. Il punto è il tempo. Dieci anni di attesa, l’uscita spostata ancora: 26 maggio 2026. Un hype che ormai è diventato leggenda urbana, e quando aspetti qualcosa così a lungo, anche un trailer perfetto ti sembra troppo poco. Perché non stai più guardando un gioco: stai guardando te stesso dieci anni fa e ti accorgi che nel frattempo sei cambiato, sei cresciuto, invecchiato, peggiorato, hai meno tempo, meno pazienza, meno sogni, e questi ti torturano con i trailer. Shelly, la mia migliore amica chimica inorganica ma organicissima, in pelle e ossa, vive a Edimburgo davanti alla sede della Rockstar. Ogni giorno li spia. «Vedi niente?». «No». «Non hai un drone?». «No, ho l’arricciacapelli della Dyson però». «Cosa gli vuoi fare, la permanente agli sviluppatori?».
Gli sviluppatori invece esultano: Víctor Ávila dice “Chat, abbiamo fatto un buon lavoro?”, Arthur Medeiros urla con tutte le lettere maiuscole, Mariah Jankie chiama la madre, Jonathon Bick parla delle bollicine nella birra e dell’alluminio delle lattine che sembra vero. E lo è. Tutto incredibilmente curato. Ma cosa può fare un dettaglio fotorealistico contro dieci anni di attesa?
Io e Zyo abbiamo chiuso il trailer e siamo usciti dal bagno e ci hanno crivellato in mezzo secondo.
Abbiamo riso, poi siamo tornati a sparare. Perché alla fine è così: aspetti un sogno per dieci anni, ma ti ritrovi sempre in un cesso, con un’arma scarica e la solita domanda in testa: e adesso? Come Jason e Lucia. Solo con meno tatuaggi e più lag.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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