In Aula l'ora del Silvio 3 Farà la "sua" rivoluzione

Nel discorso ha saputo mostrare i punti di forza della maggioranza e i difetti degli avversari. Ha ancora un anno e mezzo per ribaltare il Paese

In Aula l'ora del Silvio 3 
Farà la "sua" rivoluzione

Non sono stato e non sono tenero con Berlusconi per quelli che con­sidero gravissimi errori. Né il fat­to di far parte del gruppo dei co­siddetti responsabili mi fa cam­biare idea. Ma ieri mattina alla Ca­mera, mentre ascoltavo il discor­so che aveva già pronunciato al Senato, mi sono detto: diavolo d’un uomo, se sa cogliere l’occa­sione, può farcela. Non ho ap­plaudito freneticamente perché odio i comportamenti da stadio delle due parti, ma ho battuto le mani al passaggio in cui ha detto che se è vero che di opposizioni ce ne sono tante, è però vero che messe tutte insieme non costitui­scono una maggioranza politica, sono nulla: nulla che possa aspi­rare a sostituire un governo nato dalla legittimazione democrati­c­a e che conserva i numeri per go­vernare.

Il clima era come al solito da sta­dio e l’inevitabile spettacolo del­le due curve intristiva il Parla­mento. Ma si coglieva un elemen­to di novità che era nelle parole e anche nello stile, nella postura e nella misura del presidente del Consiglio che ha saputo mante­nere un tono convincente e ri­spettoso nei confronti dell’oppo­sizione, la quale ha dato anche per questo segnali di nervosismo come se stesse prendendo atto che certi sogni sono svaniti e che quella che sembrava la fine po­trebbe essere un nuovo inizio. Se fosse stato pensato come un di­scorso di reinvestitura, Berlusco­ni avrebbe fatto bene ad osare l’inosabile e riconoscere davanti alla nazione, come fece Bill Clin­ton, quegli errori che hanno por­tato a lui e al suo schieramento politico devastanti guai, compre­sa, se dobbiamo credere a Roberto Formigoni, la bruciante sconfitta di Milano.

Ma ieri alla Camera alcuni punti fermi si sono fissati sul tabellone e li riassumerei così. Il governo nasce da una vittoria elettorale netta e da una maggioranza nettissima, poi assottigliata per l’uscita di Fini: quella maggioranza è stata a lungo in asfissia, ma poi si è solidificata e oggi regge, c’è e non perde pezzi.

Naturalmente un obbligo di lealtà verso il lettore mi impone di ricordare che io il 14 dicembre scorso ho votato la sfiducia a Berlusconi, nella mia qualità di vicesegretario del Partito liberale, insoddisfatto della risposta che il presidente mi aveva dato sulla indispensabile riforma elettorale. E fu proprio in quella occasione che vedemmo che in Parlamento non esisteva una maggioranza numerica alternativa, ma - peggio ancora non c’era e non c’è una maggioranza politica diversa. Ci sono invece diverse ipotesi di accozzaglia, di ammucchiata e di fronti popolari aperti ad operazioni spericolate che nei rari casi in cui si realizzano possono soltanto far crescere l’instabilità.

Fu allora che mi resi conto dell’impraticabilità della politica di un terzo polo che avevo io stesso tentato di creare di fronte al crac del bipartitismo nel quale avevo tanto creduto e che aveva purtroppo prodotto cocci.

E, a proposito di cocci, devo dire che mi ha sorpreso ieri vedere i leghisti, che abitano alla nostra sinistra lassù nella piccionaia dei responsabili, i quali ostentatamente non applaudivano e, salvo sporadiche eccezioni, recitavano la parte di chi ha messo il muso. E allora mi è venuto in mente il discorso di Bossi a Pontida in cui il leader leghista diceva sostanzialmente al suo popolo urlante («Secessione! Secessione!») che i numeri sono numeri e che non c’è alternativa a questo governo e a questa maggioranza perché- sosteneva il fondatore della Lega - ci troveremmo di fronte a cicli storici a corrente alternata e oggi il ciclo è favorevole alla sinistra.La storia dei cicli è un po’ tirata per i capelli, ma è certo che la Lega sa che oggi non stravincerebbee anzi sarebbe ridimensionata.

Dunque, dall’alto della coffa dove abitiamo noi lassù, vedevo espressa nel Parlamento la ragione della logica e la logica della ragione.

E la logica dice che questo governo non cade, perché potrebbe farlo cadere soltanto la Lega, che però non può farlo perché se si va ad elezioni anticipate le perde. Dunque la maggioranza ha fatto presa e resiste con un suo zoccolo duro. È poi anche probabile che nel Paese si sia intanto sviluppata una nuova maggioranza non berlusconiana, ma non si sa se quella anti-maggioranza saprebbe esprimere una politica e un leader stabile. I sondaggi dicono che gli italiani lo sanno: oggi l’alternativa non c’è. Dunque, quel che oggi c’è non è ancora un fatto politico destinato a produrre politica, ma soltanto vento di malumore, fibrillazioni e reazioni emotive.

La politica invece, ho imparato da quando sono in Parlamento, è una scienza quasi esatta. Somiglia più alla fisica che all'astrologia o alla poesia. Ci sono i numeri e ci sono le alternative. Ci sono le condizioni obbligate e quelle fra cui è possibile scegliere. Oggi le condizioni sono quelle che obbligano questo governo e questa maggioranza a governare il Paese fino alla scadenza naturale della legislatura, a meno che non rompa la Lega, cosa estremamente improbabile malgrado i suoni flautati di Bersani che però si trova da solo a fare le avance al Carroccio.

E allora ecco che Berlusconi oggi si trova di fronte alla grande occasione. Quella del giro di boa e del colpo di reni. Dato per spacciato dai suoi che discutono sugli ornamenti da portare ai funerali del berlusconismo, con i conigli neri al capezzale come un Pinocchio senza speranza, ecco che il presidente del Consiglio si trova di fronte a un gioco semplice, con sponde ben definite, tempi certi e governati dal calendario e dalla logica.

Questo gli dà forza. E ieri lo abbiamo visto, o ci è sembrato, più forte, meno nervoso, più stabile e fiducioso di sé mentre diceva all'opposizione le cose che l'opposizione sa perfettamente da sola e infatti numerose erano, a sinistra, le interruzioni scomposte, che sembravano improntate alla rabbia di fronte ad una serie di dati di fatto concreti.

Di qui una possibilità: e se Berlusconi si decidesse a dar mano alla famosa rivoluzione liberale di cui non si è visto niente? E se si prendesse la libertà, in modo sereno e credibile, di criticare anche se stesso per le gravi cadute di stile? E se imparasse a distinguere fra compagni di strada pensanti e killer dagli occhi di ghiaccio? E se desse con un colpo di reni un forte impulso alla cultura stringendo d’assedio l’egemonismo storico della sinistra? E se facesse qualche effetto speciale diverso da quelli cui ci ha abituato modificando stile e toni, come del resto ha già fatto in questi giorni?

Un anno e mezzo non è poco per dare segnali fortissimi e nuovissimi, là dove non è possibile mettere mano alla spesa perché i cordoni sono stretti. Un anno e mezzo può essere, a saperlo gestire in modo rivoluzionario, nuovo e sorprendente, una piccola era storica: il tempo per dare un segno che arrivi profondamente, che sappia convincere in televisione accettando le sfide e rispondendo in maniera serena, forte, sorridente, convincente, non retorica, ferma, colta, amichevole.

Pensavo: si può fare. Se sa cogliere l’occasione, il momento, si può fare. E facendolo renderebbe giustizia a quell’enorme popolo liberale che negli anni ha creduto in lui e che si è in larga parte disamorato. Avremmo bisogno di un «Silvio3», dopo quello della rivoluzione promessa e della rivoluzione abbandonata.

È ora di dare il segnale concreto, anche solo di parole e di atteggiamenti, che la rivoluzione che l’Italia attende è dietro la porta. «Play it again, Sam» si diceva in Casablanca . Provaci ancora, Silvio, perché l'occasione esiste e sta a te coglierla. Paolo Guzzanti

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