Cronache

Aumentano palazzi della salute e liste d’attesa

Rispetto a Edmondo De Amicis e a Cuore, l’unico punto in comune è la penna rossa. Certamente le maestrine che hanno guidato la protesta erano dotate di adeguate scorte di inchiostro rosso.
E, si badi bene, lo dico da strenuo difensore della scuola pubblica e delle maestre della scuola pubblica: dalle elementari all’università ho frequentato classi statali e i miei figli, dall’asilo in poi, studiano alle statali. Non sono un radical-chic di sinistra e non posso permettermi le private a prescindere. Fra l’altro, almeno per quanto riguarda i casi personali, difenderò fino alla morte i miei insegnanti e quelli dei miei bimbi, nella stragrande maggioranza dei casi bravissimi. Insomma, non parlo per fatto personale. Ma per principio.
Lo si sentiva dai loro slogan. Lo si capiva dalla foga con cui attaccano la riforma Gelmini, la legge 133 e la 137, anche nei punti in cui le contestazioni erano palesemente false. Come, ad esempio, sull’entrata in vigore immediata del decreto sul maestro unico o prevalente che dir si voglia, che invece è prevista solo per gli alunni che entrano in prima dal prossimo anno scolastico: è scritto nero su bianco nella legge, per di più - una volta tanto - senza bisogno di traduzioni dal giuridichese all’italiano. È chiarissimo, così come è scritto. Oppure, sul tempo pieno. Che - con la liberazione di molte maestre dalla compresenza in aula - dovrebbe essere incrementato e non ridotto. Ma che «verrà ridotto» è un dogma di fede.
Personalmente, non credo che la riforma Gelmini sia un dogma di fede. Ci sono cose sacrosante - a partire dal grembiulino, quanto di più anticlassista esista in natura, fino ad arrivare all’introduzione dell’educazione civica o ai voti espressi in decimi - e altre cose su cui si può discutere. Il maestro unico può avere pregi e difetti, si può discutere. Civilmente, pacatamente, serenamente. Come dice il Veltroni di Crozza. Come non dice il Veltroni di Veltroni, sempre più distante da quello della campagna elettorale, anche verbalmente.
Comunque, si può discutere. Ad esempio, io trovo ottimo l’ordine del giorno sulle «classi ponte» (lo chiamo così per semplicità) presentato dal leghista Roberto Cota, quando prevede che i bambini stranieri che non conoscono l’italiano studino a parte e poi entrino nelle classi con gli altri quando hanno colmato il gap linguistico. Un’ottima idea, peraltro già provata, seppure in forme diverse, quando era assessore alla scuola in Comune Luca Borzani, che tutto è fuorché un pericoloso xenofobo e razzista.
A chi parla di razzismo e xenofobia consiglierei di andare a farsi un giro in certe scuole, soprattutto a Sampierdarena, nel centro storico e in Valbisagno, dove spesso i genitori italiani non iscrivono più i loro figli. Non perché siano razzisti, non perché abbiano nulla contro l’istruzione pubblica, non per strani motivi, ma perché sanno benissimo che se venti alunni su venticinque sono stranieri, la classe dovrà aspettare che imparino la lingua. E la scuola pubblica, da sempre, giustamente, è tarata sugli ultimi, non su quelli che sanno tutto di tutto.
Eppure, anche lì - dove ad essere colpite dallo snobismo di quelli dell’egualitarismo sempre e comunque sono le classi più deboli - dire una cosa che è proprio il contrario del razzismo, è stato immediatamente bollato come «atteggiamento razzista» da coloro che si sentono superiori sempre e comunque. Per diritto divino. Per decreto (non decreto Gelmini, evidentemente). Per investitura ed egìda (Mariastella lo direbbe così) di qualche intellettuale.
Ecco, quello che spero abbiamo imparato da questa storia - dove anche il centrodestra ha fatto tanti errori, di comunicazione e di mancato confronto preventivo - è la capacità di reagire alle menzogne. Ai luoghi comuni e ai luogocomunismi. Alla verità di parte, sempre la stessa parte.
Quello che spero abbiamo imparato è il coraggio di non lasciarci intimidire da nessuno.

Nemmeno dalle maestrine dalla penna rossa.

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