Un autunno eterno ad alta gradazione

La sua poesia dedicata alla stagione più triste fu il segnale del ritorno alla vita per l’Europa Mentre lui conobbe soltanto violenze, degrado e fiumi di assenzio

In tutta la Francia occupata, gli uomini del maquis drizzarono di colpo le orecchie. Radio Londra stava trasmettendo i cinque celebri versi: «I singhiozzi lunghi/ dei violini d’autunno/ mi feriscono il cuore/ con languore/ monotono». Era il segnale atteso. Lo sbarco anglo-americano in Normandia era alle porte. Avvenne puntualmente il 6 giugno 1944. Fu la liberazione dai nazisti e l’inizio di una nuova vita serena della Nazione.
Esattamente un secolo prima nasceva invece l’infelicissimo autore di quei versi beneauguranti. Uno sradicato che trascinò la vita tra carcere, osterie e ospedali. Fu il più smodato bevitore di assenzio della sua epoca, al confronto del quale Charles Baudelaire era un modello di virtù. Il Nostro - in genere, dopo averne appena combinate di peggiori - passava ore nei caffè più malfamati di Parigi, lo sguardo vitreo perso nel vuoto come la sordida coppia nel dipinto di Degas. Si ridusse così alla più nera miseria, diventando un barbone senza dimora. Due anni prima di morire ottenne un vitalizio dallo Stato - una sorta di legge Bacchelli della Francia di fine Ottocento - che gli consentì di perseverare nella sua degradazione con qualche affanno di meno.
Solo la prima giovinezza di quest’uomo abietto ebbe una certa normalità. Figlio di un ufficiale dell’esercito e di una santa donna, entrambi di corte vedute, il Nostro lasciò la Lorena e la famiglia per Parigi, dove fece buoni studi classici. Divenne poi uno svogliato impiegato comunale e, contemporaneamente, un assiduo della bohème parigina. Era uno dei tanti poeti in circolazione - prima di assurgere tra i massimi del secolo - e come loro conduceva vita disordinata, ma senza esagerare.
Fu con la morte del padre che il ventunenne rivelò la sua vera natura. Nella madre, rimasta sola, si ingigantirono le preoccupazioni per l’esistenza dispersiva del figlio. La poveretta cominciò a supplicarlo sempre più spesso di badare alla carriera, di rinunciare alle velleità artistiche, di farsi una famiglia e altre cose così. Il Nostro, per tutta risposta, prese a insultare la donna nel modo più villano e, le poche volte che tornava a Metz, arrivò perfino a picchiarla con inaudita brutalità. Alla fine, tuttavia, si arrese alle insistenze materne e sposò a 26 anni una sprovveduta diciassettenne. Ne ebbe presto un figlio, Georges.
Nello stesso anno, però, abbandonò la famiglia per vagabondare con un tipaccio con cui aveva molto in comune: la passione per la poesia, il genitore militare e l’origine nordica, poiché l’amico era delle Ardenne, verde regione tra Lorena e Belgio. Chi dei due fosse il peggiore, è difficile a dirsi. Fatto sta che - tra un bagordo e l’altro - vennero a lite e il Nostro sparò diversi colpi di rivoltella al compare, ferendolo leggermente. Fu processato e condannato a due anni di carcere. Qui ebbe tutto il tempo di riflettere, si pentì e si avvicinò a Dio. Il galeotto parlò, pomposamente, di conversione. Ma era una parola esagerata, come sarà presto chiaro. La moglie intanto ottenne la separazione e le fu affidato Georges, che il padre non vide mai più. Anni dopo, il Nostro scrisse al figlio una raccomandazione-testamento molto edificante - «porta bene il tuo nome che come si doveva fu portato» - per la quale gli mancavano del tutto le credenziali, avendolo disonorato lui per primo. Georges - era destino - fu a sua volta un poco di buono e morì alcolizzato nel 1926 senza figli. Per cui oggi la schiatta è estinta.
Uscito da galera, privo di famiglia e agganci, il Nostro insegnò qualche tempo in Inghilterra e in Francia, poi mentre scriveva poemi religiosi con lo pseudonimo di Pauvre Lélian, anagramma del suo nome, ripiombò nel vizio. Si innamorò di un contadinello, Lucien Létinois, e lo adottò per coprire con la paternità la tresca gay. Lucien morì di lì a poco di tifo e il padre-amante lo pianse con una raccolta di poesie, Amour, alla quale si aggiunsero i poemetti a sfondo omosessuale, Hombres, che alludevano anche all’antico intrigo col tipaccio cui aveva sparato. Ormai, l’ultraquarantenne era però un poeta esausto. Il meglio lo aveva dato col Canto d’Autunno (che annunciava l’operazione Overlord) e nei celebri versi saturnini.
Consunto dalla sregolatezza, il Nostro morì a 52 anni.

All’indomani della sepoltura, dalla statua della Poesia in cima all’Opéra si staccò la lira col braccio che la sosteneva, precipitando sul selciato dove era appena passato il corteo funebre del sublime poeta e misero uomo.
Chi era?

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