Avati: "Quel padre mi assomiglia Mi sono ispirato a Novi Ligure"

Lunghi applausi del pubblico a Il papà di Giovanna nel quale il regista racconta gli errori dell'amore paterno (guarda il video). E, a Venezia, anche i cinefili riabilitano Risi: tutti in coda per I Mostri

Avati: "Quel padre mi assomiglia 
Mi sono ispirato a Novi Ligure"

Venezia - «Quando due genitori si amano fanno figli belli» dice a un certo punto Giovanna a suo padre. È bruttina, Giovanna, e non è particolarmente intelligente, ma a suo modo ha capito quello che il mite Michele Casali non ha mai voluto confessare a se stesso: una matrimonio infelice. Troppo bella lei, ex ragazza sbandata che nello sposarsi pensava di trovare la sicurezza economica, troppo innamorato lui, professore di disegno al liceo il cui stipendio garantisce appena un misero decoro. È anche per questo che ha trasferito sulla figlia quell’amore che la moglie respinge e non ricambia, centuplicato dal fatto che la ragazza è goffa come lo è stato lui alla stessa età, non ha né grazia né fascino, quella grazia e quel fascino che un padre educato alla bellezza attraverso l’arte ben conosce. Si illude che proteggendola e nascondendole la verità, la metterà al riparo dalle delusioni della vita, si illude che basti volere la felicità della figlia perché questa felicità si manifesti. Finirà in tragedia, e dopo ci sarà soltanto il tempo del rimorso e dell’espiazione.

Presentato ieri in concorso e lungamente applaudito dal pubblico, Il papà di Giovanna di Pupi Avati fa fare alla Mostra il salto di qualità che finora era mancato: un film robusto e ben interpretato, una storia semplice, ma dalla tematica intensa, dove l’elemento cronachistico, un folle delitto per gelosia nella Bologna degli anni Trenta, offre lo spunto per interrogarsi sul difficile «mestiere» paterno, sui conflitti al femminile, sul tenero e spietato mondo dell’adolescenza.

«Già in La cena per farli conoscere avevo messo al centro del mio interesse una riflessione sulla figura del padre» ricorda Avati. «Lì si trattava di un genitore distratto, tre figlie da tre donne diverse, un ex uomo di successo, narciso e immaturo. Qui ho scelto l’opposto e mi ci sono immedesimato, ho dato al protagonista, interpretato penso magistralmente da Silvio Orlando, molto di me. Anch’io ho cercato di preservare mia figlia dai dolori della vita, e quindi ho mentito e ho inventato di tutto pur di vederla felice... Questo mi ha permesso, credo, di dare maggior verità al modo di reagire del protagonista quando la sua “bambina” si macchierà di un omicidio di cui lui si sente in qualche modo corresponsabile. Per molti versi quest’uomo, che crede fermamente in quello che fa, e che quando si rende conto di aver sbagliato non si tira indietro, ma paga sulla propria pelle, è un eroe. E mi è sembrato giusto sottolinearlo».
Le due figure femminili del film delineano due mondi opposti: la bellezza di Delia, la madre, Francesca Neri sullo schermo, respinge istintivamente la ordinarietà bruttina di Giovanna (Alba Rohrwacher), che a sua volta ama e odia un modello irraggiungibile da cui rimane schiacciata. «È sempre difficile spiegare l’alchimia che regola questo tipo di rapporti» dice ancora Avati. «L’amore, in qualsiasi forma lo si coniughi, uomo-donna, genitori-figli, ha in sé uno sbilanciamento: c’è sempre qualcuno che ama più di quanto l’oggetto amato non possa o non voglia corrispondere. Qui c’è una mamma che non è riuscita e entrare in sintonia con la propria figlia, ma è anche vero che la complicità e il fortissimo legame di quest’ultima con il padre glielo hanno in fondo impedito. Ha bisogno di tempo per capire, accettare, fare delle scelte».

Ambientato a Bologna, il film si avvale di una minuziosa ricostruzione in studio dell’abitazione di via San Vitale in cui il regista ha trascorso la sua infanzia. «Quando mi è capitato di leggere di Garlasco, Cogne, Novi Ligure, ho sempre cercato di immaginarmi la vita quotidiana fra quelle quattro mura domestiche e mi sono reso conto che è difficile, non ne sappiamo nulla... Così per Il papà di Giovanna mi sono affidato a un punto di partenza solido, che faceva parte del mio passato e mi permetteva di far muovere gli attori con naturalezza, perché spazi e gesti mi erano del tutto familiari».

Il film si chiude con un recupero di «normalità familiare», ma Avati non vuole sia scambiato per buonismo consolatorio. «Sarebbe una lettura sbagliata.

C’è un padre che per star vicino alla figlia, che per il suo delitto si è fatta anni di manicomio criminale, regredisce anche nel linguaggio, diventa anche lui infantile... C’è una madre che nel momento in cui decide di tornare, probabilmente si condanna a una definitiva infelicità. Si tratta di vite rovinate, comunque le si voglia vedere».

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