Per non soffrire di nostalgia o crisi di astinenza, ho pensato questa volta di partire in vacanza con il Giornale. È una soluzione magnifica per non avere sensi di colpa e portarsi, per così dire, il lavoro da casa. Così in extremis mi sono aggregato a Mario Cervi, Stefano Passaquindici e ai lettori del Giornale per trascorrere una settimana alle Mauritius. L'isola era bella e la vegetazione, per dirla con i dépliant turistici, era lussureggiante, ricordava le pitture esotiche di Rousseau il doganiere. Per sentirmi più ad agio nel paesaggio, leggevo il diario di Gauguin a Noa Noa. A parte l'infortunio di qualche pioggia, il sole picchiava così duro che dovevi metterti la protezione Bertolaso per non scottarti; ed io vi assicuro che ho una pelle dura e gnura, come diciamo noi padani del sud, ma mi sono scorticato. L'acqua del mare era calda ma così calda che era un gusto immergersi pure di notte; ti sentivi un dado in brodo. Squali non ce n'erano, almeno in acqua.
La popolazione delle Mauritius sembra shakerata o selezionata dalle Nazioni Unite: ci sono indiani e africani, cinesi e creoli, islamici e indù, cristiani e animisti, più i vecchi coloni francesi, olandesi e un nucleo immancabile di italiani. In un sontuoso giardino c'erano le piante lasciate in dono dai capi dello Stato e ministri venuti in visita e ce n'era una piccola piccola senza nome: sarà venuto pure Brunetta? L'unica comunità coesa sull'isola era quella del Giornale. Era un piacere essere a tavola e non trovare nemmeno un ammiratore di Di Pietro o della sinistra; era un piacere trovarsi sempre d'accordo e non dover discutere, come sempre capita, con chi la pensa in modo opposto e attribuisce tutti i mali della terra a Berlusconi. Per una settimana consecutiva non ho sentito nemmeno un insulto a Berlusconi, anzi quasi non l'ho sentito nominare, al punto che ho dubitato della sua esistenza, come se fosse una diceria messa in giro dalle sinistre. Verso la fine del soggiorno stavo pensando di insultarlo io, per mantenere alto il livello dello scontro e non perdere l'allenamento.
Era commovente trovare lettori che si facevano stampare in carta stoccafisso l'edizione mauriziana del Giornale, con Feltri in versione coloniale e leggere a novemila chilometri di lontananza le eroiche gesta di Vendola o della Polverini. Un gruppo compatto, amicale, affiatato. Ma poi quando li conoscevi meglio ti accorgevi che in realtà erano irriducibili ad un partito o ad una setta, ognuno era un tipo autonomo, un carattere a sé, con una sua personale visione del mondo. Perché i lettori del Giornale non sono quelli dell'obbedienza cieca pronta e assoluta, e nemmeno quelli di credere obbedire e combattere; semmai preferiscono ricredersi, obbiettare e dibattere. Ti accorgi che i lettori del Giornale non sono una razza, un'etnia, ma una collezione, come diceva Flaiano. Uno è diverso dall'altro, sono esemplari unici, inimitabili, fatti a mano, con le iniziali ricamate sull'orlo del pensiero. Cattolici ferventi e ammazzapreti, liberali e conservatori, nazionalisti e filoamericani, nostalgici o futuristi, paesani e metropolitani. Tante repubbliche indipendenti, anzi per restare nella location, tante isole e qualche atollo. Se il Giornale fosse una nazione sarebbe un arcipelago. Però erano solidali.
Non come un gruppo di tedeschi ospiti del resort che a colazione ha assistito inerme ad un uccello con la cresta alla Marco Travaglio, che beveva e si sciacquava il becco e le zampe dentro una spremuta di una loro compagna di viaggio andata al buffet.
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