Le avventure di Sherlock Doyle

Il creatore del detective più famoso della storia letteraria affrontò alcuni casi di cronaca nera

La scienza medica, in fondo, è un’indagine poliziesca. Ha a che fare con un colpevole (la malattia) da smascherare e vincere. Un colpevole che lascia tracce (i sintomi). Una volta studiate le tracce e individuato il colpevole, il medico utilizza gli strumenti (farmaci o altre terapie) per risolvere il caso. Diagnosi e prognosi sono il braccio destro e quello sinistro del medico-detective.
Ora, Arthur Conan Doyle (1859-1930) era medico. Non solo. Medico era Joseph Bell, che il «padre» di Sherlock Holmes conobbe a Edimburgo, e al quale rubò i tratti somatici e comportamentali per instillarli nella sua creatura letteraria. I metodi scientifici dell’inquilino di Baker Street, dunque, sono il suo marchio di fabbrica, ne delineano persino, se lo osserviamo da vicino, la psicologia, un po’ cinica e fatalista. In questo, però, «padre» e «figlio» non si somigliano. Se il «figlio» Holmes ingaggia la lotta al crimine alla ricerca della Verità, più che del Bene, il «padre» ha un cuore più tenero, si lascia coinvolgere emotivamente, nelle sue indagini.
Indagini? Quando mai il medico Conan Doyle vestì i panni del detective Conan Doyle? Quando mai abbandonò il famigliare (e comodo) ambito della fiction per sporcarsi le mani nella realtà? Lo fece. E in più di un’occasione, anche se ottenendo meno successo dell’impareggiabile Holmes, da lui stesso reso pressoché infallibile. Ce lo spiega nella sua autobiografia Memories and Adventures, pubblicata nel ’24 da Hodder and Stoughton a Londra e tradotta in italiano nell’87 dalle Edizioni Rosa & Nero con il titolo, tendente al giallo, Ucciderò Sherlock Holmes. È questa la principale fonte cui ha attinto Peter Costello per il suo Conan Doyle detective, uscito nel 2006 nel Regno Unito, a giorni disponibile in spagnolo e, si augurano tutti gli holmesofili italiani, in rampa di lancio anche sul nostro mercato.
Che cosa ci racconta il pacioso sir Arthur? Ci racconta un terribile caso di malagiustizia avvenuto all’inizio del ’900. George Edalji, figlio del vicario della parrocchia di Great Wyrley, è un bravo ragazzo che studia legge. Certo, i suoi non navigano nell’oro, ma si galleggia a distanza di sicurezza dall’indigenza. Il problema è un altro: il colore della pelle. Gli Edalji sono troppo scuri per i gusti inglesi del tempo, essendo indiani parsi. Conan Doyle, il quale si chiede come un parsi abbia potuto diventare reverendo anglicano, parla di lettere anonime dal tono «mostruoso» indirizzate alla famiglia. E parla, soprattutto, del dramma vissuto dal povero George. In breve, qualcuno si mette a far strage di cavalli nella zona, mutilandoli orribilmente. E chi viene incolpato? Ovviamente il nigger, quel pacifico e miopissimo aspirante avvocato. Ed è proprio l’accentuata miopia che consente a sir Arthur non, purtroppo, di incastrare il vero colpevole e di scagionare del tutto George, ma, almeno, di infangare come meritano sia gli inquirenti razzisti, sia, addirittura, il ministero degli Interni. «Il Daily Telegraph - scrive Conan Doyle - indisse una sottoscrizione a suo favore \, e raccolse 300 sterline con le quali Edalji restituì a una vecchia zia i soldi che aveva dato per la sua difesa. Poco dopo egli venne alla cerimonia del mio secondo matrimonio: nessun altro invitato mi procurò maggior orgoglio». La cerimonia avviene il 18 settembre 1907. George non è molto in forma, dopo tre anni di galera gratis.
Poi ecco il caso di Oscar Slater, un’altra vittima della maldestra polizia britannica. Slater è quel che si dice un brutto ceffo: giocatore d’azzardo, avventuriero, immorale. Ed ebreo. Così la responsabilità della morte dell’anziana miss Gilchrist, trovata dalla cameriera con la testa sfracellata, ricade su di lui. «Poiché mi si attribuiva il merito della liberazione di Edalji - ricorda Conan Doyle -, i sostenitori della innocenza di Slater mi ritennero in grado di adoperarmi con successo anche per questo caso». Nuova campagna di stampa orchestrata da sir Arthur. Nuove ricerche. Ma niente lieto fine. «Tutti i personaggi della tragedia, giudici, testi principali ecc., sono ora morti: il disgraziato Slater continua a mangiare il pane del penitenziario di Peterhead».
Un’ottantina di pagine prima, il Nostro medico-detective aveva dato conto di due episodi molto meno hard. La scomparsa di un uomo con un mucchio di sterline e una misteriosa lettera composta da due fogli bianchi inviata dal Canada a un impiegato morto da parecchi anni.

Nel primo caso sir Arthur ricostruisce per benino come si sono svolti i fatti, nel secondo, dopo «ogni sorta di prove chimiche e termiche» sui fogli, si arrende alla sconfitta. «Ci vorrebbe un Sherlock Holmes», avrà pensato.

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