Azzoppato da terrorismo e corruzione

Non ci sono molti dubbi, una volta tanto in una tornata elettorale, su chi abbia vinto, chi abbia perso e sul perché. Se incertezze permanevano di fronte alla esiguità di talune cifre degli Stati che hanno deciso il voto nel Senato, a spazzarle via, liberando il campo preventivamente dalle recriminazioni, è stato proprio George Bush, lo sconfitto. Spesso un po’ sprezzante nella vittoria, il presidente ha saputo essere brutalmente sincero nella sorte avversa: ha riconosciuto di essere stato battuto, ha ammesso senza ambagi di essere «profondamente deluso». E immediatamente ha proceduto a pagare lo scotto.
Alla prima apparizione pubblica dell’indomani c’era con lui il fedelissimo Donald Rumsfeld, l’uomo che Bush si era impegnato a non licenziare mai, e il suo successore, Robert Gates. L’annuncio è stato magari cordiale, ma un po’ secco e Rumsfeld non è apparso particolarmente felice. Anche perché è trapelato che la sua sorte sarebbe già stata decisa prima degli scrutini in una riunione a tre con Gates e Bush. Forse, anzi probabilmente, è stato consultato il vicepresidente Dick Cheney, legatissimo all’uomo del Pentagono sul piano personale oltre che ideologico, ma dall’annuncio pubblico egli si è tenuto lontano. È esagerato dedurne che nell'amministrazione Bush sia cominciata una «epurazione», ma ci sono indizi che il presidente ha colto e riconosciuto i segnali mandatigli attraverso le urne e che lo riguardano molto da vicino. I temi principali della campagna elettorale 2006 sono quattro o cinque, fra cui l’economia, il terrorismo, la corruzione, ma due hanno dominato la scena perché hanno plasmato lo stato d’animo degli elettori: il primo è l’Irak, il secondo è George Bush in persona. È una realtà non nuovissima, ma che l’uomo della Casa Bianca non era parso finora disposto ad accettare ed esaminare.
Egli contava sui suoi due assi, quello di denari dell’economia e quello di bastoni della guerra al terrore. Ma il primo gli si è rivoltato contro: per alcuni motivi solo in parte validi gli americani sono inquieti sul loro futuro personale, anche se Wall Street non è mai stata così in alto e il tasso di disoccupazione così in basso. È risultato infine che l’atout erano le spade, la guerra, l’Irak. Bush lo sapeva e fino a un certo punto ha cercato di giocare d’anticipo, appropriarsi dell’argomento, prendersela con le confuse obiezioni dei democratici, riassumerle nel desiderio di «tagliare la corda». E ha sbagliato i conti, lui o il suo stratega Karl Rove, spesso generosamente definito «il genio». Né l’uno né l’altro sono riusciti a convincere gli americani che laggiù in Mesopotamia la situazione migliora, anche perché erano rimasti in tre o quattro a crederlo e tentare di farlo credere. Tutti gli altri si erano venuti convincendo del contrario, al punto che poche ore prima del voto hanno abbandonato la barca i principali ideologi neoconservatori e perfino il giornale dei militari si è sentito autorizzato a reclamare la destituzione di Rumsfeld.
Che il malcontento verso gli aspetti militari e politici dell’impresa irachena sia stato decisivo lo dimostrano, fra l’altro, due aneddoti estratti dagli exit poll. Richiesti di quale fosse il motivo principale per cui sono andati a votare (l’affluenza è stata elevatissima), quasi 40 elettori su cento hanno risposto: George Bush. La loro ostilità a Bush. E nello Stato del Rhode Island un senatore repubblicano che è una specie di padre della patria, Lincoln Chafee, ha visto la sua popolarità confermata, sempre negli exit poll, da un indice di approvazione plebiscitario, il 72 per cento, ma nelle urne ha perso il posto perché, hanno detto molti elettori, «a votare per lui si finisce poi col votare per Bush». Che anche in questo caso è sinonimo di guerra in Irak. Di fronte a una emotività maturata in oltre tre anni di delusioni, il presidente non aveva molte difese tranne le battute polemiche contro i critici. Solo di recente egli dev’essersi reso conto che questa guerra in terre lontane stava avvelenando la sua presidenza (con tutti i suoi ragguardevoli risultati) nello stesso modo in cui un altro conflitto dall’altra parte del mondo ha finito con l’avvelenare gli ultimi anni di Casa Bianca di un suo predecessore texano dai grandi meriti, Lindon Johnson. Quest’ultimo finì col non ripresentarsi, George Bush è già stato eletto due volte. Il suo problema è come pilotare i suoi ultimi due anni alla Casa Bianca senza diventare un’«anatra zoppa» come tanti suoi predecessori, senza rinunciare all’obiettivo che resta per lui prioritario, la guerra al terrore.

Adattandosi però alle necessità di una conduzione bipartitica di questa guerra e della ricerca, sia pure non precipitosa, di una via d’uscita. Accettando in qualche modo, dunque, di «cambiare strategia» dopo quattro anni in cui egli ha orgogliosamente «mantenuto la rotta» anche quando andava a sbattere contro scogli grossi e rabbiosi.

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