Bagnoli: «Il calcio è lo specchio di un’Italia malata»

L’ex mister del magico Verona che vinse lo scudetto: «Quel mondo mi è rimasto nel cuore»

Bagnoli: «Il calcio è lo specchio di un’Italia malata»

Aprite un libro del calcio e andate a cercare una foto di Osvaldo Bagnoli, quello che tutti noi abbiamo sempre riassunto nell’Osvaldo della Bovisa, l’occhio che ti scruta da sotto in sopra, il berretto un po’ storto, l’intercalare milanese. Non è cambiato, se non negli anni: ricordi che frullano, un inestinguibile distillato di saggezza, una boccata d’aria pura. Dice: «Sono pensionato e sono fortunato. Faccio quel che mi passa per la testa: ho settantuno anni e vado ancora a sciare. Prendo un amico e via. Basta la salute». Oggi Bagnoli è l’emblema di un calcio che fu. Pane e salame? Forse. Vittorie, sconfitte, gloria e delusioni, tutt’uno fino al giorno che Pellegrini lo licenziò dall’Inter e lui guardò il suo libretto lavorativo e disse: «Chiudo». Era il febbraio 1994, da allora è rimasto alla finestra. Giusto?
«No, giusto no. Io non sono alla finestra. Avrò anche l’istruzione da terza media, ma io vivo in questo mondo».
Alla finestra del calcio...
«Guardi che alla mia età continuo a giocare con i Gialloblu 70. Quel giorno chiusi perché ero arrivato alla saturazione».
Ed era un calcio diverso...
«Ma anche quello di 50 anni fa era diverso da quello di 20 anni fa. Il mondo cambia e pure il calcio. Sono italianista e non credo che certi fatti succedano solo in Italia. Magari non capitano con la nostra ripetitività. Noi abbiamo visto di tutto: dalle scommesse ai passaporti fasulli fino all’ultimo scandalo. Forse gli altri sono più bravi a prendere decisioni, a far rispettare le leggi. Ma il calcio si rispecchia in tutto il resto della vita italiana».
I giovani, calciatori o no, talvolta esagerano?
«Non possiamo lamentarci se i giovani crescono in un certo modo. L’esempio dei vecchi che sono al comando non è dei migliori. Non si può far colpa ai calciatori: hanno trovato quello che è stato lasciato».
Ci siamo perduti il bello di un certo calcio?
«Le rispondo con un ricordo: quando ero ragazzo andavo a vedere la Stelvio, una squadra del mio rione, che poi era la Bovisa. Facevano i derby con i paesi vicini, Novate, Bollate, e a volte capitava che tutto finisse con una scazzottata: una sana scazzottata, non organizzata prima. Capisce cosa viene in mente a uno di 70 anni e più? Adesso c’è la bomba carta ed è organizzata».
Un calcio troppo diverso...
«Ripeto: tutto cambia. Una volta andavamo in bici o a piedi, non eravamo tanti. Adesso vedi le code e su ogni auto c’è una persona. Nel calcio, come in politica o in azienda, manca rispetto per la gente, educazione e altre cose pesanti: i veri valori».
Manca il rispetto delle regole?
«La grande differenza è questa: oggi è più difficile farle rispettare, ognuno ha un avvocato con cui difendersi. E forse noi non siamo stati e non siamo capaci di far rispettare le regole».
Si sente di difendere il calcio?
«Certo che lo difendo, sennò perché andrei ancora a giocare con i veterani? Una volta si giocava nei prati a piedi nudi, oggi non si può. Bisogna adeguarsi in tutto».
Lei ha vissuto il calcio della provincia e quello della metropoli, forse allora segnava un confine?
«Certo, lei pensa a Verona dove ho vissuto il calcio ad un certo livello e a Milano dove il livello era superiore. Ma io penso anche a Fano e Cesena, dove ho pure allenato. A Cesena non so quanti risparmi avrei potuto mettere in banca, a Milano ho messo via il tanto che mi ha fatto vivere tranquillo e un giorno mi ha permesso di dire: basta! Forse ero saturo, non avevo più stimoli, di certo potevo permettermelo. Se non avessi avuto quei soldi, avrei dovuto continuare come chi è costretto a lavorare, pur controvoglia».
I soldi sono stati tutto?
«No, non dipendo dal Dio soldo, anche se è importante. Sono stato contento della mia vita da calciatore, anche se avrei potuto avere di più. Come allenatore ho ottenuto più di quanto mi concedevano i mezzi. Ma ho chiuso soddisfatto per aver lavorato bene: che abbia vinto la coppa del farmacista o il titolo italiano».
È stato un’eccezione?
«Credo che tutti quelli della mia epoca siano stati così, diversi da quelli di oggi. Quando ero fra i ragazzi del Milan, con i primi risparmi mi sono comprato una Vespa. Ma un dirigente mi fece osservare che era troppo pericolosa per il mio mestiere. Cosa fare? Capirà, a 18 anni, al Milan, era il sogno di ogni ragazzo. Non mi vergogno a dire che ho venduto la Vespa. Per fortuna a un mio amico che la desiderava, così non ho perso nemmeno un soldo. Era nuova».
Oggi nessuno direbbe: vendi la Ferrari o la Porsche?
«Sarebbe un controsenso, perché è un mondo diverso. Per tornare al discorso iniziale: qui tutti colpevolizzano le società, ma poi, per risolvere i problemi, sento chiacchiere e chiacchiere su quel quadratino che teniamo in casa. Se non siamo capaci di rispettare le regole ogni discorso è inutile. Se non succedeva questa grossa disgrazia saremmo andati avanti col solito tran-tran».
Le disgrazie sono state due nel giro di una settimana...
«Ma questa ha fatto più rumore, l’altra forse aveva meno mediaticità. Si dice così, no?».
Si può fare qualcosa?
«Si parla di cinte di protezione, di carta d’identità e tante altre cose. Ma quelli che fanno scorribande sono ben conosciuti. Prendiamo ad esempio l’Inghilterra? D’accordo. Ma lo stadio è fatto per vedere il calcio e non per fare risse. Sono quelle da evitare, non il calcio. A Catania è successo tutto fuori, allora perché non mettiamo quattro cinte di sicurezza, magari tutto questo succederà a un chilometro di distanza. Oggi la gente dice: non vado allo stadio perché è pericoloso. E se noi cominciassimo a sculacciare quelli che lo rendono pericoloso?».


Senta Bagnoli, gira voce che l’Inter sia preoccupata che il campionato non si concluda. Sarebbe una maledizione, non le pare?
«No, non scherziamo. Quest’anno dire che l’Inter è stupenda è dire poco. Qualunque cosa succeda può vincere tutto, anche la Champions».

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