Chiamatemi «la moglie di Lot». No, non mi sono girata per vedere Dio ripulire Gomorra con il suo napalm di fuoco e di zolfo. Ma adesso sarei una statua di sale. Carne e ossa incrostate di bianco, sul fondo gelido dell’oceano. Sentirei la carezza oleosa dell’alga, se quella mattina non avessi avuto nella tasca a tenuta stagna del mio giubbotto autogonfiabile Sea Safety il vetusto satellitare Samsung, che pesava come un ferro da stiro, ma macinava byte con l’impegno di un orologio svizzero. Non sarei qui, adesso, a battere questa memoria sulla tastiera immacolata del mio notebook Apple Air.
Sono una reporter di National Geographic. Ogni volta che mi pare di gorgogliare in un pozzo nero d’ansia; quando nella calca mattutina che s’imbottiglia alla metropolitana vedo solo i rimasugli sfilacciati di un corteo funebre; se mi prende la fregola di scendere in strada, afferrare per il bavero il primo che passa e gridargli in faccia il mio scontento, beh, allora non telefono allo strizzacervelli. Busso alla vetrata del mio capo, Jack Mirror. Lui mi accoglie, abbassa sul naso gli occhiali cerchiati di tartaruga, mi fissa per un paio di secondi, e mi fa: «Che mare vuoi?». E subito aggiunge: «Prenditi Frank. Settemila, come minimo...». È un parlare in codice. Frank è il più dotato fotografo marino in circolazione. Nelle vene e nelle iridi color pervinca ha acqua salmastra. Quando sulla copertina della rivista scintilla un suo scatto, National tira in edicola come un puledro imbizzarrito. Minimo settemila copie d’incremento. Furono molte volte tanto, quando Frank riprese il mostruoso cilindro verde dello tsunami, che ci rotolava addosso a centocinquanta miglia l’ora. Il mio pezzo è contorno, saporito, piccante, patinato: ma solo contorno.
Il mare. Per me è la linfa della vita. «Oceano Indiano» risposi. «C’è il capitano Achab, laggiù, e dice che sta per trivellare Moby Oil, il più grande giacimento di oro nero al mondo. Forse può salvare l’occidente dal capestro degli sceicchi. O prolungarne l’agonia, per un po’... È a bordo della Pequod, la sua mitica piattaforma petrolifera navigante. Ha il dito sul grilletto del suo arpione fumante di acciaio e di iridio, una trivella da novemila piedi. Vuoi che mi perda il momento? Devo saperne di più. Voglio raccontare la sua storia. Merita il servizio d’apertura, questo mese...».
Due giorni dopo, il Bell 206 della Guardia Costiera delle Maldive ci scodellava - me, Frank e il suo grappolo di Nikon veterane - nel cerchio dipinto in giallo che segnava il punto d’atterraggio sul ponte superiore della Pequod. Crescendo di rotori, e in pochi attimi l’agile elicottero argentato era una pulce brillante contro il violaceo dei cumuli monsonici che ingombravano il cielo equatoriale. Jack Mirror non lesinava sulle spese vive, quando fiutava copertine olezzanti di dollari. E con il barile di greggio in volo verso i duecento, la storia di Achab alla caccia di Moby Oil prometteva più che bene. Quanto a me, mi sentivo intorno, acuto e persistente, un aroma di Pulitzer.
«Può presentarmi al capitano Achab?» abbaiai contro il vento a quello che mi parve l’ufficiale in seconda, un uomo dall’espressione tranquilla e decisa, che mi tese la destra e, con la sinistra, si sfilò dal collo un grosso binocolo da marina, marca giapponese, offrendomelo. «Il capitano Achab?» rispose «cerchi laggiù...» aggiunse, indicandomi un punto sulla lastra smaltata di rame dell’oceano al tramonto.
Misi a fuoco il potente binocolo, e scorsi una tavola da windsurf che filava e saltava sulle onde ad almeno trenta nodi di velocità. Un fortunato mortale, avvinto all’albero snodabile e al boma, radicato alla tavola come una statua di bronzo, la pilotava con abilità non comune. Era fasciato in una tuta nera di neoprene, ma anche a quella distanza distinsi, sciolte, le lunghe chiome grigie e la barba che fluttuavano libere nel turbine. Mi venne in mente la scultura di un vecchio dio greco del mare, forse Posidone.
«Quello è Achab» soggiunse l’ufficiale, facendomi strada verso l’ascensore «Achab è Achab!».
Mentre scendevamo, non riuscii a tenere a freno la lingua. «Credevo, signor...» esordii, cercando di ravviare con le dita quel poco che restava del lavoro che il mio parrucchiere newyorkese aveva svolto solo due giorni prima, «Starbuck» rispose lui, sfoderando la sua educazione d’altri tempi, con il lieve inclinarsi del capo e l’accenno di battito dei tacchi «ma la prego, Miss» concluse «lasci che sia lui a spiegarle come può fare il campione di windsurf nelle sue condizioni».
Mi ero documentata. Anni prima, Achab aveva perso la gamba destra in una delle sue innumerevoli battaglie contro i fondali oceanici, alla ricerca di giacimenti petroliferi. Una trivella maligna si era frantumata contro un basalto troppo tosto: un errore di pochi millesimi di grado nell’inclinazione, e una scheggia assassina, roteando in aria come la katana di un samurai, si era portata via l’arto di Achab, insieme a tre membri della sua squadra.
«Benvenuta sulla Pequod, Miss Ismail». Achab mi riceveva nella sua cabina. Mi dava le spalle. Seduto su un massiccio scranno girevole da pescatore di marlin, provvisto delle bardature originali in cuoio, scrutava l’oceano. L’arredo era minimale. Mobili di ferro laccato antiruggine. Ma computer di ultima generazione, tutti in funzione. Su un monitor, riconobbi Maxwave, il sistema di monitoraggio planetario delle onde killer. Lastre curve di plexiglass offrivano lo scenario ad angolo giro dell’Oceano Indiano. Da quei novanta piedi d’altezza, capii perché gli antichi pensassero alla terra come a un disco piatto.
«Perdoni l’indiscrezione, Miss» disse il capitano, senza voltarsi, regolando il fuoco del suo cannocchiale, un vecchio arnese di rame scintillante, «qualche rapporto con Bruce Ismail, il socio della White Star che uscì vivo dal naufragio del Titanic?».
«Era il mio bisnonno, capitano» risposi. La segreteria di National Geographic aveva fatto un buon lavoro con le mie credenziali. Achab fece ruotare il suo trono. Jeans scoloriti. Pullover crema, cachemire leggero. I capelli da profeta biblico raccolti dal nodo sulla nuca. Al lobo sinistro, strano e corsaro, fiammeggiava un orecchino d’oro. Era lui. Sprigionava magnetismo. Carisma. Schegge opaline nello sguardo azzurro di ghiaccio. Il sorriso era fascino duro, ma con dentro un crepaccio di provato, di malinconico. Un demone regnava su quell’uomo. Un’ossessione arcana. Automaticamente, i miei occhi si orientarono sulla sua gamba destra. «Plastica, Miss» disse lui, senza colori nella voce «sottoprodotto del greggio. Una piccola vendetta personale, mia, contro Moby Oil. Minuteria, tiranti, snodi e punti d’appoggio sono in titanio-iridio. Ho fatto fondere lo spezzone della trivella che mi ha mutilato. Un artigiano ortopedico di Londra mi ha forgiato la gamba nuova. Potrei vincerci una gara di windsurf. Me la cavo ancora bene sul campetto di tennis costruito dai ragazzi, giù al ponte cinque della Pequod. Si accomodi...».
Achab non era uomo da aspettare domande. Cominciò il racconto. «Vede, la Pequod è una piattaforma anomala. L’ho progettata io: è autonoma. Un’isola nomade. E io sono il suo dio e unico signore. È da trivellazione e da produzione insieme. In più, naviga. Ventimila cavalli, da quattro motori basculanti, che possono farle fare il giro del mondo, senza traino, ma soprattutto tengono fermo il suo centro di gravità sul giacimento da perforare. Ma prima deve sapere una cosa...».
Lavorò fulmineo a una tastiera, collegata a uno schermo al plasma da parete, sessanta pollici di vivo splendore. «Tutti credono che il petrolio sia intrappolato in giacimenti fissi. Falso. Il greggio è il sangue nero della terra. Scorre nelle arterie di granito, sotto il fondo degli oceani, come in un ciclopico sistema venoso. La rotazione del pianeta funziona da cuore, da pompa. Guardi questa mappa» e indicò il grande monitor «l’ho costruita io, pezzo per pezzo, in mezzo secolo di caccia, monitorando le bolle vaganti di oro nero».
Spostò il puntatore del mouse. «Ecco Moby Oil, la più grande, la più feroce. Domani, a mezzogiorno in punto, passerà sotto la verticale della mia trivella. Ed è lì che io pianterò il mio arpione. Miliardi di barili. Io sono un contractor. I petrolieri sono bottegai: vendono. Io sono un cacciatore. Tutti abbiamo una missione. Lo dice chiaro la Santa Bibbia. E Dio, a me, ha affidato la caccia all’oro nero. “Achab” mi ha detto “corri sugli oceani. Insegui Moby Oil, oltre gli scogli spumeggianti del Capo di Buona Speranza, al di là del Maëlstrom di Norvegia, tra gli atolli del Pacifico, in mezzo alle bufere di Capo Horn!”. Caccia grossa. Due secoli fa sarei stato un baleniere. Dal pennone, avvistando il respiro del leviatano, avrei gridato “Laggiù, soffia!”. Oggi, invece, studio il monitor e mi dico “Laggiù, scorre!”».
Gli guardai le mani. Vene e tendini in rilievo, come i tiranti delle sue trivelle, sotto la pelle bruciata dal sole. Chissà se avevano mai accarezzato il corpo di una donna, i riccioli di un bambino...
«Ho una moglie, sa» mi disse, come leggendomi nel pensiero «lassù a Nantucket Island, nel Massachusetts. E tre ragazzi bellissimi. Ma non passo molto tempo con loro...».
Fu l’ultima volta che vidi Achab da vicino. Il giorno dopo, all’alba, la battaglia ebbe inizio. Dovrei avere una penna da Omero, da Conrad, da Melville, per descriverla. Sono solo una cronista. Dirò, nudi, i fatti. La Pequod mi svegliò con il suo canto sommesso e profondo. I motori, sotto pressione, caricavano i cassoni di ancoraggio. Nella condotta della trivella immensa gli stantuffi stipavano tonnellate di energia. Fui ammessa al briefing che precedette lo scontro.
«Capitano Achab» esordì il secondo, Starbuck «i segnali dei sismografi non sono positivi. C’è movimento, là sotto. Le ricordo che cosa successe l’anno scorso, al lago Baikal, quando una scossa da sette gradi sulla scala Richter sbriciolò le piattaforme...». «C’erano Gazprom e Shell: macellai ignoranti!» tagliò corto Achab «ho inseguito Moby Oil per anni: non me la lascerò sfuggire proprio oggi...». «Signore» continuò Starbuck «le stazioni meteo segnalano una coda del Niño in avvicinamento...». «Non sarà un uragano da quattro soldi a fermarci, signor Starbuck. Fate distribuire la pinta di grog agli uomini, il piede caldo del diavolo! E cominciamo...».
Frank, il mio fotografo, caricò le Nikon. Mi allacciai il giubbetto. Impostai il satellitare su start. Notai che Achab portava un iPod al braccio, inguainato nella custodia subacquea. «Musica, capitano?» domandai, desiderosa di infilare un po’ di colore nel mio pezzo. «Beethoven e Mahler quando trivello. Sono appropriati. Quando mi rilasso, ascolto Moby. Conosce Where you end? “Voglio baciarti fino a non sapere dove finisci tu, e dove comincio io...”. È perfetto per esprimere quello che sento, il mio rapporto...» Achab si infilò gli auricolari «... con il mare!», concluse, lanciandomi un sorriso che mi incantò. E uscì verso la sua fine.
Il cielo era di bronzo, con lampi violacei. Grossi chicchi di grandine mitragliavano i ponti. Proiettili che il vento spazzava in orizzontale. Ottanta piedi più in basso, l’oceano era un tappeto infido di verghe grigio ferro che si attorcigliavano pesantemente intorno ai piloni della Pequod. Nella sala comando della trivella, i monitor spiavano il lento fluire di Moby Oil sotto la nostra carena. Achab impugnava i comandi. «Sembra un videogame» pensai con largo tasso d’ingenuità, mentre brividi incontrollabili mi scuotevano. Forse era freddo. Ma più probabilmente, terrore. L’istinto vitale mi urlava che qualcosa di spaventoso era pronto a esplodere, sotto il sudario dell’acqua.
Il volto del capitano Achab era pietra illuminata dallo sfarfallio del monitor. Notai che sulla consolle, accanto a diagrammi, appunti e stampate, era posato un vecchio libro, dalla copertina scura, in pelle lisa. Era una Bibbia. Il capitano spinse la leva, simile alla manetta di un jet. L’enorme ago filettato cominciò a ruotare, mordendo il granito del fondo.
«La pressione della bolla è abnorme, capitano» segnalò lo specialista della squadra, senza emozione nelle corde vocali. In risposta, Achab schiacciò in avanti la manetta, come se volesse decollare per l’inferno. Fu a questo punto che gli aghi dei sismografi schizzarono in alto, sui cilindri rotanti. Non sono una geologa. Ma avevo visto abbastanza film del genere catastrofico per intuire che qualcosa non andava per il verso giusto. Il fondale dell’oceano traballava e sussultava come un tappeto sbattuto da mani gigantesche. Moby Oil dava spallate alle pareti di granito della sua cella di pietra. Un ariete colossale picchiava al portone del castello di Achab, ma Achab era intenzionato a non mollare.
«In azione le pompe rotanti» sussurrò il capitano, come se eseguisse una sinistra melodia. Sapevo che era il modo di svuotare i cassoni di zavorra, sollevando la Pequod di una trentina di piedi. Così avrebbe danzato meglio sul ritmo del movimento tellurico scatenato dalla rabbia di Moby Oil. Ma il suo baricentro si sarebbe alzato, e di molto. La piattaforma sarebbe stata investita, come una vela gonfia, dalle raffiche vaganti del Niño. Il primo scrocchio non si fece attendere. Uno dei piloni si era frantumato, come un rametto secco. La trivella s’incurvò, come l’arco di una balestra medioevale. Quando si spaccò, i frammenti tranciarono altri due piloni della Pequod. Prima di scattare fuori dalla sala controllo e lanciarmi nel vuoto, vidi Achab abbracciare il troncone della trivella, nel tentativo assurdo di bloccarla, o forse d’impugnarla come una fiocina emersa dal passato. La vite possente risucchiò il suo corpo verso il fondo, verso l’abbraccio pastoso e bruciante di Moby Oil.
Adesso potete chiamarmi con il mio nome. Miss Ismail. Ismaele, il figlio della schiava Agar, il biblico ragazzo che il patriarca Abramo mandò ramingo sulla terra.
Achab e la sua Pequod mi avevano lasciata orfana nel freddo abbraccio del mare. Jack ha avuto la sua copertina da record. Io il mio Pulitzer. Achab ciò che sempre volle: non sapere più dove finiva Moby Oil, e dove cominciava lui, il capitano d’altri tempi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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