Balene suicide e tori infilzati ma l’unica bestia è l’uomo

Morire su una spiaggia. Suicidi, per fame. Capita agli uomini disperati, è capitato a cinque capodogli che hanno finito la loro vita sull’arenile del Gargano, tra Ischitella e Cagnano. Gonfiati dall’immondizia degli uomini cosiddetti civili, buste di plastica, cassette di polistirolo, reti, l’autopsia ha accertato la causa della loro morte. L’equipe di ricercatori, guidata dal professor Giuseppe Nascetti del dipartimento di ecologia e sviluppo economico sostenibile dell’università di Tuscia, non ha dovuto impiegare molto tempo per capire le cause di un fenomeno che si era già verificato negli anni Ottanta a Ortona. Il capodoglio si nutre esclusivamente di calamari ma spesso può confondere il proprio cibo, ingoia quello che le fogne clandestine, le navi, le barche, i panfili scaricano nelle acque, la plastica impedisce all’animale di mangiare, lo stomaco viene intasato dalle buste nere che vengono gettate in mare trasformato in discarica. Lo spettacolo è consueto, basta osservare quello che i vacanzieri lasciano al tramonto sulle spiagge, dopo il loro pic nic. Basta controllare gli scarichi marini di alcuni ristoranti lungo le litoranee, basta avvicinarsi, ma non troppo, agli yacht sui quali non si può salire con le scarpe ma dai quali viene vomitata pattumiera continua. L’immagine dei sette capodogli piaggiati sulle coste pugliesi ha fatto il giro del mondo, altri fotogrammi del bel Paese: «Cinque dei sette capodogli erano moribondi - ha spiegato il professor Nascetti - il vento di tramontana li ha spinti verso riva. Altri due stavano meglio, avevano mangiato i calamari ma sono morti perché hanno deciso di seguire il branco dei maschi e la spiaggia li ha uccisi definitivamente».
Questa vicenda dei rifiuti gettati in mare viene trascurata e sottovalutata. Lo conferma sempre il professore Nascetti: «È uno degli elementi più importanti per la salvaguardia del mare, per la protezione dell’ambiente e dovrebbe essere uno dei punti più importanti di discussione per le autorità politiche che sono riunite a Copenhagen. Le attività dell’uomo stanno distruggendo il pianeta, lo dice uno che non è un ambientalista ma un ricercatore».
Morire di fame, in mezzo ai pesci, traditi dall’uomo, non può essere vero ma accade, così come accade in Catalogna che il popolo voglia cancellare le corride, proteggere i tori da una mattanza che fa parte del folklore turistico, della tradizione di una terra ma è contro la civiltà dell’uomo. Centoottantamila firme raccolte dal movimento Prou che nella lingua catalana significa Basta, il tentativo di «staccarsi» da Madrid anche con questa manifesta provocazione. In contemporanea, una cinquantina di località della Francia meridionale domandano al governo di Sarkozy di presentare all’Unesco la richiesta di aggiungere la tauromachia come patrimonio dell’umanità. Non si sa bene quale sia il significato dato all’umanità. La cronaca registra cifre abbastanza disumane: ogni anno vengono uccisi tredicimila e cinquecento tori, senza un vero motivo se non quello del piacere dello spettacolo, del gusto del sangue, del rischio, dell’ovazione, dell’esibizione.

I tori non possono scegliere la stessa morte dei capodogli, non hanno spiagge sulle quali arenarsi, possono ribellarsi incornando il torero, facendo tremare i picadores o i banderilleros ma sanno che la loro fine è segnata, annunciata dallo speaker, accompagnata dallo sventolare di fazzoletti colorati, fotografata, filmata, addirittura trasmessa in diretta televisiva. Hemighway scriveva che la corrida non è uno sport ma una tragedia. C’è polvere, c’è sabbia, c’è morte come su una spiaggia del Gargano o in un’arena di Spagna. L’uomo finge di essere il vincitore.

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