Politica

In banca troppa finanza e poca economia. La vittima? È l’impresa

Il ministro Giulio Tremonti, sabato, ha criticato le banche, perché opprimono i clienti con elevate commissioni e perché, pur potendo accrescere i loro finanziamenti dell’economia, sottoscrivendo i cosiddetti Tremonti bond, preferiscono non farlo. E di conseguenza, dice il ministro, le nostre banche non solo danno il credito alle imprese e alle famiglie a condizioni onerose, ma anche in misura troppo limitata, non avendo adeguati parametri patrimoniali. La richiesta, che mi ha fatto il direttore Vittorio Feltri, di spiegare ai lettori se Tremonti ha ragione, se è vero che sottoscrivendo i Tremonti bond potrebbero dare più credito alle imprese e alle famiglie e perché mai non lo fanno, mi viene come il cacio sui maccheroni. Infatti ho appena ricevuto la lettera di un lettore de il Giornale, il signor Claudio Caldognetto, che, trattando questo argomento, avanza una sua risposta ai tre quesiti, che fa riflettere. Infatti lui richiama, come spiegazione, le condizioni che deve adempiere la banca che si procura i Tremonti bond, fra le quali vi è l’aumento del finanziamento alle medie e piccole imprese e un codice etico. I banchieri, dice il lettore, evidentemente, non desiderano sottoscrivere queste due condizioni. È molto probabile che lui abbia ragione. E qui c’è un paradosso, che il lettore stesso sottolinea. La maggior parte dei grandi banchieri italiani (ma spesso, aggiungo io, anche di quelli americani, inglesi, spagnoli, tedeschi e via elencando) si dichiara di sinistra. E lo fa tanto apertamente da andare a votare nelle «primarie» dell’ex Pds ora Pd. E il bello (o il brutto, a seconda dei punti di vista) è che loro, di solito, non sono ex comunisti o ex fiancheggiatori «laici» del Pci, ma si dichiarano di fede cattolica e votano per il Pds o Pd, in quanto cattolici di sinistra. Da ciò, sorge la conclusione del signor Caldognetto, racchiusa nelle due parole «che schifo», motivata dal fatto che, a quanto pare, a questi banchieri non piace procurarsi questi «T bond», perché il codice etico dà loro fastidio e preferiscono dare i soldi agli amici e alle grandi imprese, che a quelle piccole e medie.
Prima di dire la mia, al riguardo, debbo però spiegare, per il lettore non tecnico che cosa sono i Tremonti bond (che ho chiamato T bond) e perché essi possono servire alle banche per aumentare il proprio patrimonio e quindi il credito che erogano. Essi non sono semplici prestiti obbligazionari con cui lo Stato eroga denaro a medio termine a soggetti con date qualifiche e condizioni che essi accettano. Si tratta di cosiddetti «prestiti subordinati» al capitale sociale: la parola «subordinati» indica che il creditore della banca, la quale non onora i suoi debiti, dopo aver fatto una azione per soddisfarsi sul capitale sociale, mediante ufficiale giudiziario, può, in subordine, farla su questi prestiti. Quindi chi li ha emessi, cioè lo Stato, risponde dei debiti della banca, come gli azionisti di essa, ma subito dopo di loro. Dunque i T-bond valgono come patrimonio della banca, in quanto equiparati al suo capitale sociale. E le banche che se li procurano accrescono il proprio patrimonio, ai fini delle regole cosiddette di Basilea (dal nome della città ove furono stabiliti) riguardanti i requisiti patrimoniali che debbono avere gli istituti di credito, per fare i prestiti.
Ora risulta che le nostre banche, pur essendo tutte ufficialmente solvibili, cioè dotate di parametri di Basilea adeguati, rispetto ai loro prestiti, sono in coda alla graduatoria dei parametri patrimoniali, con il 7,3% di patrimonio rispetto ai prestiti. Quelle svizzere hanno il 13,7%, quelle degli Usa il 9%, le tedesche l’8,9% e le francesi e giapponesi l’8%. È chiaro che le nostre banche, di media, non sono in grado di aumentare il credito a imprese e famiglie, se non si procurano altro patrimonio con i T bond o con altri metodi. Perché le banche non vogliono i T bond? A mio parere, non perché sono costosi, ma perché oltre a dover firmare un codice etico, debbono anche far vedere i loro conti al Tesoro, che deve controllare se esse rispettano le regole. Sin qui concordo col signor Caldognetto.
Ma c’è, io penso, un’altra ragione, forse ancora più importante. I capi delle nostre banche oramai vengono dalla finanza, dalla politica delle fondazioni bancarie, dalla gestione contabile dei bilanci. Ma pochi di questi banchieri hanno una competenza specifica di economia industriale, di analisi costi-benefici, di economia della famiglia e del consumo. E quindi non riescono a valorizzare il personale bancario che sa capire le imprese e le famiglie; preferiscono quello che vende bene i titoli perché ha la lingua sciolta.

E ciò dipende dal fatto che nel sistema bancario non c’è abbastanza concorrenza.

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