Milano - Si chiamano Citigroup, Crédit Suisse e Ubs, e sono le tre “streghe” che, il giorno dopo Halloween, hanno fatto passare un giovedì da incubo alle Borse internazionali, rese peraltro ancor più vulnerabili dal pericoloso avvicinarsi dell’indice manifatturiero americano alla linea di demarcazione tra crescita e contrazione dell’attività economica.
La reazione degli investitori ha provocato un forte arretramento dei listini europei, dove le perdite hanno oscillato da un minimo dello 0,8% (Madrid) fino a un massimo del 2% (Parigi e Londra), con Milano in calo dell’1,97%, mentre a Wall Street il Dow Jones ha chiuso in ribasso del 2,63% e il Nasdaq del 2,21%. Le paure generate dall’intossicazione del settore del credito provocato dal virus dei mutui subprime hanno infatti trovato ieri amplificazione a causa delle pessime notizie piombate sui mercati con la forza di un maglio: non è piaciuta la bocciatura rifilata dagli analisti di Cibc World a Citigroup, per la quale si prospettano tempi di cinghia tirata (taglio dei dividendi, vendita di asset, probabile aumento di capitale per reperire risorse fresche); né, dall’altra parte dell’Oceano, le svalutazioni annunciate da Crédit Suisse, rimasta invischiata nei prestiti ad alto rischio, e il voto più basso rimediato da Ubs da parte di Merrill Lynch.
Insomma, se tre indizi costituiscono una prova, è fuor di dubbio che dovrà ancora passare tempo prima di veder smaltite le tossine finanziarie accumulate dalle banche. Ragionamento perfino elementare, che trascina con sé la voglia di liberarsi in fretta dei titoli.
In Europa, l’indice di settore ha ceduto ieri quasi il 3%, e a Piazza Affari Unicredit ha lasciato sul terreno oltre il 4,6%, una perdita che si è andata a sommare ai ribassi precedenti: nel complesso, la diminuzione di valore di Piazza Cordusio è stata di quasi il 30% da metà maggio, periodo dell’annuncio della fusione con Capitalia.
Ma non sono solo gli istituti di credito a offrire ai mercati l’appiglio per ragionare in termini di rischio. Se alcune trimestrali (su tutte, quella di Microsoft) avevano fatto sperare in un finale d’anno all’insegna di un nuovo rally dei listini, ben altri scenari sono quelli prospettati dai deludenti risultati di Exxon, dall’annunciato taglio di 12mila posti di lavoro di Chrysler, dalle vendite calanti di Ford e dal continuo lievitare dei prezzi del petrolio. Tutti guardano all’America, ma l’evoluzione congiunturale Usa resta per certi versi indecifrabile.
Mercoledì scorso, il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha giustificato la decisione di tagliare i tassi di un altro quarto di punto con la necessità di sostenere l’economia, nonostante la robusta crescita del Pil (più 3,9%) nel terzo trimestre, preservandola dai contraccolpi del settore immobiliare, ancora in sofferenza. Bernanke ha avvisato che il bilanciamento dei rischi tra inflazione e crescita potrebbe non rendere più necessari altri interventi di correzione del costo del denaro, eppure ieri i future sui Fed Fund esprimevano ancora il 100% di possibilità di una riduzione dei tassi in dicembre.
A giudicare dall’andamento dell’indice Ism manifatturiero, sceso in ottobre a 50,9 punti (ovvero appena al di sopra della linea che indica espansione), dal numero doppio di famiglie che tra luglio e settembre (rispetto al 2006) non sono state in grado di onorare le rate dei mutui e dalla flessione delle spese private, l’America sembra aver ancora bisogno dell’aiuto della Fed. Ma è anche vero che gli effetti delle decisioni di politica monetaria si riflettono sull’economia dopo circa sei mesi. Bernanke, quindi, avrebbe buone ragioni per rinviare ogni decisione fino all’anno prossimo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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