Unicredit ha ieri perso l’11% e chiuso a 0,68 euro. Quattro anni fa valeva 10 volte tanto e mancavano ancora aumenti di capitale di 10 miliardi (largo circa). Intesa (-9,5%), in questi quattro anni è andata un po’ meglio, ma siamo lì. Tuttavia c’è una buona notizia per le banche italiane (e non solo, come vedremo) e per il loro presidente Giuseppe Mussari, che le rappresenta in tutte le sedi istituzionali: questi prezzi non significano nulla. In altri termini non rappresentano il reale valore dell’impresa (bancaria) il cui capitale è sul mercato. Ormai non è più così da tempo.
I titoli bancari, come diceva ieri uno dei più attenti gestori che operano sulla Borsa italiana da almeno 25 anni, «sono diventati i derivati del listino: salgono o scendono moltiplicando per 10 o più volte gli effetti attesi su quel listino». C’è una buona notizia? Le banche potrebbero guadagnare il 10-15% in poche ore (non succede quasi mai, ma è accaduto) mentre il resto del mercato fa 3-4%. Ce n’è una bruttina (come tutti i giorni)? Vanno giù a rotta di collo, bene peggio del resto del mercato. Roba vietata ai malati di cuore più delle Gauloises senza filtro. Purtroppo però c’è anche la cattiva di notizia: il mercato fa così perché con lo spread Btp-Bund a 380 punti (ieri è arrivato lì) le banche italiane non possono andare da nessuna parte. Non nel lungo, ma nemmeno nel medio periodo. Perché? Perché il rischio Paese si riflette sul costo del finanziamento delle banche italiane, pari pari.
Dunque se la liquidità sul mercato deve essere pagata, per un’azienda di credito tricolore, il 3-4% in più di quanto non fosse pochi mesi fa, proviamo a chiederci a che tassi la stessa banca dovrà remunerare i propri impieghi per guadagnare anziché perdere. Siamo al limite dei tassi da usura. In realtà le cose non stanno esattamente così: esiste il mercato interbancario interno e altri sistemi per ridurre il costo del finanziamento. Ma questa situazione non può durare a lungo. Ecco perché i titoli delle banche non li vuole più nessuno. Per ora. E non solo quelle italiane. Si pensi, per esempio, alla Grecia. E allo spread che ieri ha superato i 2mila punti.
Non c’è uno zero in più, nessun errore: un bond di Atene rende il 20% in più di un bund tedesco. Effetto per le banche: sono virtualmente fallite. Per il mercato non sono più imprese in grado di produrre alcunché di interessante nel loro settore di pertinenza. Comunque, se stare in buona compagnia consola, allora ci sono anche quelle francesi che ieri hanno fatto i numeri. Le banche transalpine, da SocGen (-10,7%) a Bnp Paribas (-12,3%) a Crédit Agricole (-10,6%) hanno pagato a caro prezzo il possibile taglio del rating di Moody’s, legato proprio all’esposizione con la Grecia.
Le banche Usa, nel frattempo, hanno fatto sapere tramite il Financial Times e JpMorgan, che non hanno alcuna intenzione di rispettare i parametri di Basilea 3, quelli che imporranno tra qualche anno di avere un patrimonio pari al 7 e fino
al 9% degli asset bancari: una forma troppo alta di assicurazione, con la quale diventa impossibile fare soldi. Appunto. È quello che sta succedendo e il mercato, come sempre, lo ha capito da tempo e prima di tutti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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