
Anche il cielo ci mette del suo, e così l'aria su San Siro si fa ancora più pesa, più plumbea. Ore 21, Inter-Barcellona, Meazza stracolmo, bagarini telematici che piazzano un biglietto di tribuna arancio per lo stipendio di un metalmeccanico. Si va a riempire San Siro con la coscienza che tutto può accadere perché i prodigi (raramente) esistono. Ma sapendo anche che se invece va male, ed è possibile che vada male, non sarà solo una partita persa. Somiglierà dannatamente alla fine di un ciclo, sarà l'esaurirsi inevitabile e doloroso di quegli sprazzi di tempo che ci si porta dietro a lungo.
L'ultimo ciclo interista, quello dei cinque scudetti consecutivi, si chiuse di botto e con una scena omerica, Josè Mourinho che abbraccia piangendo Materazzi nel parcheggio del Bernabeu, il 22 maggio 2010, dopo la vittoria sul Bayern. Ma se stasera finisce un altro ciclo il ricordo per gli interisti più maturi non potrà che andare ad un altro trauma: la settimana maledetta dal 25 maggio all'1 giugno 1966, quando in due partite si inabissò una delle squadre più forti che il calcio italiano abbia mai visto. Il 25 a Lisbona la finale di Coppa dei Campioni col Celtic, l'Inter di Helenio Herrera strafavorita, Mazzola che dopo 7' minuti è già in gol su rigore: ma i gallesi pareggiano al 63' e a sei minuti dalla fine imbucano la rete decisiva. Herrera e i suoi tornano in Italia increduli e depressi. La domenica dopo vanno a Mantova, trasferta fin troppo facile, e perdono anche lo scudetto. Tra un po' saranno passati sessant'anni, e per molti la ferita brucia ancora.
Anche quest'anno i tempi della possibile catastrofe sono ravvicinati: il 27 la Roma è venuta a vincere a San Siro aprendo al Napoli la strada per lo scudetto, stasera il Barcellona prova a fare la stessa cosa. Del sogno di un altro triplete rischia di restare solo la carcassa. Ma stavolta a tenere accesi i cuori nerazzurri è arrivata una botta di vita che l'Inter del '66 fa non ebbe a disposizione: in mezzo c'è stato il viaggio a Barcellona per il match di andata, prestazione mostruosa, la prova che non esistono partite perse in partenza.
E così il popolo nerazzurro da una manciata di giorni sta lì, sospeso a mezz'aria, tra la paura di un'epoca che si chiuda e un raggio irriducibile di speranza. Ognuno reagisce a modo suo. Basta chiedere a tre politici di solida fede bauscia. C'è Sergio Scalpelli, che appare quasi rassegnato: «Stasera vincerà il Barcellona, anche se di poco, ed è davvero la fine di un ciclo. Peccato, perchè con lo stesso allenatore e quattro o cinque innesti la squadra sarebbe ancora molto forte». Luca Paladini, consigliere regionale di opposizione, tiene la porta aperta a tutto: «Sì, sono le serate che segnano la storia di un club. A San Siro non mi attendo spettatori, ma tifosi che spingano all'impresa. Perchè so che il Barcellona è più forte dell'Inter ma l'Inter può essere più brava e furba del Barcellona». Ma poi c'è chi, come Ignazio La Russa, presidente del Senato, rifiuta il parallelo: «La fine del ciclo al contrario di quanto avvenne col Celtic sarebbe solo se prima vincessimo la Champions. L'Inter infatti quando perse col Celtic aveva vinto l'anno prima la Coppa con Herrera. Questa Inter, con Inzaghi, non l'ha ancora vinta. Valga come incitamento per farlo quest'anno».
Certo, tutto può accadere, e chissà che un miracolo questa sera non dia nuova linfa alla lotta finale per lo scudetto, aiutando a non vivere come incolmabile la fuga del Napoli. Ma se invece va male, se davvero si chiude qui la faccenda, sarà difficile non cogliere la convergenza di due storie che vanno a finire insieme: e che in fondo ci vanno per colpa dello stesso diavolo malvagio, il tempo che passa.
Il ciclo dell'Inter di Inzaghi, la squadra più vecchia di tutta la Champions, celebra le sue ultime battaglie in uno degli stadi più vecchi d'Europa, mastodonte glorioso il cui destino appare anch'esso segnato. Ricostruiranno prima l'Inter o lo stadio?
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