da Washington
Allora toccò a David Crockett col suo berretto di castoro in testa e a Jim Bowie raccogliere le energie dei difensori e respingere, finché poterono, gli assalti del generale Santa Ana. Il nemico, allora, era messicano e la guarnigione formata tutta di «anglos». Scherzi della storia, il gioco sta per ripetersi a ruoli etnicamente invertiti. Fra i tanti crucci, delusioni e ansie di una candidatura alla presidenza degli Stati Uniti che sembrava ovvia e ora potrebbe andare a male, Hillary Clinton ha una consolazione, una certezza, un baluardo, insomma il suo Alamo. Solo che a difenderla c'è una guarnigione di discendenti di messicani che parlano spagnolo e cercano di respingere le "orde" degli americani che parlano inglese, siano essi bianchi o neri e che hanno trovato stavolta un generale più nero che bianco.
Il Texas, appunto. La nuova strategia della ex first lady, stilata d'emergenza dopo tante sorprese, delusioni e allarmi, si appoggia in gran parte a un elettorato solido, quello ispanico, che l'ha salvata ormai in tanti Stati, dalla Florida, alla California, all'Arizona. E il calendario dice chiaramente che se c'è un luogo in cui Barack Obama potrà essere fermato è il Texas, se c'è una data è il 4 marzo. Ce ne sono tanti anche laggiù, discendenti dei primi coloni ma soprattutto immigrati nel corso dei decenni. Sono cresciuti in America e considerano i loro anni più felici quella della presidenza di Bill Clinton e dunque sono affezionati alla dinastia da cui molto hanno avuto. Gli ispanici di orientamento democratico, naturalmente, perché altri, in primo luogo i cubani, giocano da sempre la carta repubblicana.
Ma all'interno dell'attuale partito di opposizione ci sono motivi ben più radicati dei sentimenti. A ragione o a torto i neri d'America si sentono emarginati dalla crescita degli immigrati di lingua spagnola con cui competono per i jobs più in basso nella scala dei salari e gli ispanici avvertono questa ostilità e tendono a proporsi come antagonisti.
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