Tutto finito, Barack presidente? In teoria dovrebbe essere così. Berlusconi questa primavera ha vinto le elezioni in Italia capitalizzando la rabbia degli italiani per il malgoverno di Prodi. Nel 1980 Ronald Reagan chiese agli elettori: «State meglio o peggio di quattro anni fa?». E l’America, che aveva il motore economico grippato ed era appena stata umiliata in Iran, volse le spalle al presidente uscente Jimmy Carter. Oggi gli Stati Uniti sono in condizioni ancora più drammatiche, come sappiamo.
L’economia è ferma, la disoccupazione sale, il sistema finanziario è sull’orlo del fallimento mentre Wall Street crolla con una velocità impressionante, nonostante il pacchetto di salvataggio da 700 miliardi. Di più: per la prima volta dai tempi del Watergate si palesa una frattura tra il popolo e le sue élites. C’è sete di cambiamento, di novità, di una rapida rinascita, quasi di una rivoluzione. Democratica, s’intende. Presupposti ideali per un candidato che da mesi promette la rifondazione dell’America. Obama dovrebbe essere sicuro non solo di vincere, ma di trionfare con una maggioranza schiacciante, del tipo quaranta Stati a dieci o anche di più. E invece a meno di quattro settimane dalle elezioni, non ha ancora l’elezione in tasca.
Ha sbagliato qualcosa? Al contrario. Il dibattito televisivo tra i due vice è stato vinto da Joe Biden, che è apparso più presidenziale e rassicurante di Sarah Palin. L’altra notte lo stesso Barack ha retto l’assalto di McCain, prevalendo ai punti. Eppure la media dei sondaggi pubblicata dal sito di Real Clear Politics indica un vantaggio che da dieci giorni è stabile attorno al cinque per cento. Anzi, secondo un istituto, Zogby, che quattro anni fa pronosticò la vittoria di Bush su Kerry, il margine è ridotto a due punti. L’allungo non riesce. E il merito non è certo di McCain.
Il problema è Obama, è la sua storia personale, che ancora non convince una parte importante dell’America profonda. Da sempre gli elettori hanno bisogno di identificarsi con il presidente, di avere qualcosa in comune con lui. Nel 2004 Bush non piaceva a noi europei, ma gli americani del Mid-West lo sentivano molto più vicino di Kerry, lo snob, il privilegiato e troppo colto Kerry. Obama ha un percorso personale in cui la stragrande maggioranza degli americani non si riconosce. È figlio di un padre nero e di una madre bianca, è stato cresciuto dai nonni ma in scuole privilegiate, appena laureato ha lavorato come organizzatore in una comunità alla periferia di Chicago. E con il passare dei mesi ha perso gran parte del suo fascino: chi si infiamma ancora per Obama?
In gennaio era magnetico, ora pochi sentono un brivido nella schiena quando parla. Chi attizza le passioni è Sarah, non lui. Inoltre gli attacchi lanciati contro Barack ad agosto hanno lasciato il segno: molta gente nutre dubbi sulla sua caratura politica, lo ritiene ancora sfuggente; in fondo molti ne diffidano. Anche per una questione razziale. Il tema è scottante e i media tendono ad ignorarlo, ma alcune indagini sociologiche confermano che un certo numero di bianchi non vuole un presidente di colore. Quanti? Almeno il sei per cento; elettori che nei sondaggi non dichiarano le proprie convinzioni, proprio perché politicamente scorrette. Ma il quattro novembre quel 6 per cento potrebbe essere decisivo, soprattutto se i mercati si saranno calmati.
L’economia è la variabile decisiva: se prevale l’ansia per il futuro Obama vince, perché è giudicato più rassicurante e gli elettori vogliono rompere nettamente con l’era Bush. Ma se il Dow Jones smette di fare le bizze, McCain può ancora rimontare, alimentando le perplessità sul suo rivale, oggi latenti nel subconscio degli elettori. Ci ha provato martedì notte, ma ha fallito per eccessiva foga.
Il terzo dibattito, in calendario il 15 ottobre, sarà cruciale. Distruggere la credibilità di Obama con qualunque mezzo. Questo il suo credo, questa la sua unica speranza.http://blog.ilgiornale.it/foa
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