nostro inviato a Chicago
La fine del viaggio, la chiama Obama. C'è anche un'ora: 7.40 della mattina di Chicago. Quando esce dalla scuola elementare Shoesmith, la sua sezione elettorale. Sorride e porta a spasso Sasha e Malia, ha appena premuto il pulsante della electoral machine sul suo nome. «Mi sento bene. Il viaggio è finito, ma votare con le mie figlie accanto è stato molto importante». Ha un abito blu, una cravatta grigia regimental, la spilletta con la bandiera americana sul bavero sinistro della giacca. Sereno, almeno lo sembra. Sta aspettando Michelle, allora scherza: «Ci ha messo un sacco di tempo. Devo controllare per chi ha votato». Sorride anche lei, poi la famiglia cammina fino alle auto del Secret Service che stanno aspettando con i motori accesi. Non sa Obama che solo per qualche minuto non ha fatto un incontro scomodo: quello con Bill Ayers, il professore di Chicago con il passato da terrorista mai pentito con cui Barack ha avuto rapporti in passato. Vota anche lui alla Shoesmith School e sceglie di farlo presto, forse per evitare troppi fotografi.
L'incontro non c'è, comunque. Un caso oppure una scelta. Quando Ayers arriva, gli Obama hanno appena raggiunto le macchine e sono ripartiti. Si dividono, adesso. Lei va a casa, lui ha un appuntamento imperdibile. Un rito: la partita a basket. È una tradizione cominciata dopo la vittoria in Iowa all'esordio delle primarie e ripetuta a ogni tappa chiave della corsa elettorale. Giocano lui, il suo assistente personale Reggie Love, altri dello staff, a cominciare dal capo della tesoreria Marty Nesbitt, poi altri amici come Arne Duncan, oggi capo della divisione scuole pubbliche di Chicago. Gli agenti della scorta guardano, dura al massimo 25 minuti, poi doccia e di nuovo in macchina. Infila in tasca gli amuleti che porta sempre con sé da quando gira l'America a caccia della Storia: una fiche da casinò che gli ha regalato un elettore e una statuetta giapponese.
Si va all'aeroporto. Obama lascia Chicago, parte per l'Indiana, vuole parlare per l'ultima volta con gli elettori di uno Stato in bilico. Sa che anche l'avversario John McCain sta facendo lo stesso. Lo staff del candidato democratico lavora. Appena Barack esce dal seggio, il quartier generale comincia a lavorare sull'ultima strategia di comunicazione. È un sms che i sostenitori di Obama ricevono alle 7.41. «I voted». Ha votato, tranquilli. Adesso tocca a loro, al suo popolo pronto a portarlo alla Casa Bianca. In aereo ripete ai giornalisti qualcosa che ha già detto la sera prima, mentre atterrava a Chicago dopo l'ultimo comizio in Virginia: «Sarà divertente vedere come andrà a finire. Vi ringrazio di aver condiviso quest'avventura con me». Forse è un modo per scusarsi per le ultime incomprensioni, quelle che hanno portato ad arrabbiarsi con un reporter polacco la sera di Halloween e quelle nate dopo l'idea del suo staff di lasciare a terra negli ultimi due giorni i giornalisti delle testate vicine a McCain. Oggi non è più il giorno delle tensioni, però. Oggi non si può più cambiare, non si può più incidere, oggi non è più campagna, ma election day. Lui parla e Chicago si riempie. Le code ai seggi, poi chi ha votato comincia ad arrivare a Grant Park, dove la macchina obamiana ha organizzato la notte elettorale. Sessantacinquemila persone, più altre centinaia di migliaia che ruoteranno attorno al parco. È qui che arriva Barack. Un saluto, prima di andare a casa per rilassarsi e controllare i risultati con un gruppo ristretto di persone.
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