Barghouti scava la fossa a Fatah

Il detenuto più popolare della Palestina fa come Sharon in Israele: lascia lo storico partito di Arafat e Abu Mazen e ne fonda uno proprio

Gian Micalessin

Ha più futuro un condannato a cinque ergastoli o un presidente in carica? Chiedetelo al detenuto Marwan Barghouti. Lui che, in teoria, solo in cinque vite smaltirà il sole a scacchi comminatogli dagli israeliani da ieri è fuori da Fatah. Poco gl’importa se, in Israele, il vecchio nemico Ariel Sharon - reduce da una mossa simile - perde l’abbrivio iniziale e indietreggia nei sondaggi da 40 a 35 seggi. Lui sogna di fare lo stesso in Palestina. Sbatte la porta in faccia al presidente Mahmoud Abbas e alla vecchia guardia «tunisina», poi via avvocato ordina alla fidata moglie Fadwa di registrare una nuova lista. Una lista per lui e per i suoi giovani leoni. E la chiama proprio al-Mustaqbal, il futuro. Il futuro suo e di chi lo seguirà. Per gli altri forse neppure la pensione.
Dietro al Napoleone di Ramallah ci sono tutti gli emergenti del movimento palestinese. C’è il deputato Kadoura Fares, nemico giurato di corrotti e monopolisti. C’è il reuccio di Gaza Mohammed Dahlan, già stufo di attendere il proprio momento facendo la guardia del corpo del presidente. C’è persino Jibril Rajoub, nemico di Dahlan e consigliere per la sicurezza di Abbas. Quanti bastano per suonare il «de profundis» all’incrostato relitto di Fatah, figlio del defunto Yasser Arafat e del suo successore. Pur di non farsi abbandonare Abbas, presidente senza fucili e senza potere, aveva convinto gli israeliani a metterlo in contatto telefonico con la cella di Barghouti. Marwan mercoledì notte non ha sentito ragione. Il diktat girava da ore. «I nostri uomini hanno vinto le primarie, devono fare i capolista», ringhiavano i giovani leoni.
Ci fosse stato Arafat i leoncini avrebbero abbassato la cresta, si sarebbero spartiti qualche osso e i vecchi lupi di Tunisi, con il primo ministro Ahmed Qorei in testa, avrebbero riagguantato i posti sul trampolino per il parlamento. Ma Lui non c’è più e benché Abu Mazen ne abbia ereditato le prerogative formali non ha né l’autorità, né la forza per applicarle. Il presidente è con le spalle al muro. Può cercare di fermare Marwan e costringerlo a tornare indietro, ma allora deve consegnargli le chiavi di Fatah e congedare la cricca di corrotti e incapaci che per trent’anni ha servito Arafat in silenzio e spartendosi il bottino. Ma deve anche regalare qualche altra vendetta a Marwan. Quel giorno di maggio del 2002 quando l’esercito bussò alla sua porta lui era in un rifugio sicuro. Senza una gola profonda molto in alto nella stessa Fatah non sarebbero mai arrivati a lui. Furono la sua conoscenza dell’ebraico e i numeri di telefono del “nemico” appuntati sul taccuino a garantirgli una resa senza spargimento di sangue. Da quel giorno Marwan ha atteso, ma nessuno s’è fatto avanti per tirarlo fuori o proporre uno scambio. Adesso non aspetta più. Non s’accontenta d’un posto da capolista, ma vuole il potere che sondaggi e primarie gli attribuiscono.
Di Fatah, forse, non sa neppure che farsene. In fondo quel relitto dalla morte di Arafat non è più di nessuno. Un po’ di soldi e poteri sono scomparsi con il capo. Un’altra parte del bottino se la sono divorata i dignitari di Ramallah e Gaza.

L’ultima è a Tunisi nelle mani di Qadura Fares, il sacrestano dell’oltranzismo armato nominato alla morte del rais segretario del partito. Fu proprio quella nomina a sancire l’inutilità di Fatah. Ed è proprio guardando a quelle reliquie che Marwan ha tenuto a battesimo al-Mustaqbal. Ed ha ripreso a pensare al proprio futuro.

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