Baricco imita Brunetta: "Basta dare soldi ai teatri"

Lo scrittore radical-chic: "Le sovvenzioni statali vadano a tv e scuole". Ma da "gramsciano" pensa che tocchi agli intellettuali educare il popolo

Baricco imita Brunetta: "Basta dare soldi ai teatri"

Di fronte al disastro, scrive Alessandro Baricco, o scappi o pensi velocemente. Secondo lui le nostre istituzioni culturali stanno per franare sotto i colpi della crisi. Scappare non si può. Bisogna perciò pensare, e fare, molto in fretta. Ma soprattutto pensare.
Ecco il succo del discorso. Siamo sicuri, si domanda lo scrittore torinese sulle pagine di Repubblica, che le sovvenzioni pubbliche al teatro e alla musica facciano del bene a queste arti? Perché questo costume sia nato, molto tempo fa, non è difficile da arguire. Ma si trattava di un’Italia molto diversa da quella attuale.

L’idea che spetti al potere pubblico di difendere quei valori che il mercato, altrimenti, finirebbe per stritolare appare oggi un po’ ipocrita. Non solo perché nulla ci dice che ministri, assessori e direttori artistici di enti pubblici ci capiscano più dei privati. O perché l’idea che il mercato sia un babau da cui il potere pubblico ha il dovere di difendere le pecorelle più deboli (che so, la musica contemporanea, il teatro di ricerca, ecc.) è solo il rimasuglio di un vecchio preconcetto. Ma soprattutto perché questa battaglia è già stata persa, gli argini innalzati un tempo a difesa della cultura sono stati agevolmente aggirati e ora la battaglia si sta combattendo da un’altra parte.

Dove? Sicuramente in tutti quei luoghi non giurisdizionali, internet in testa, che hanno allargato a dismisura la fruizione e la produzione di fatti culturali. Ma, in primo luogo, la vera battaglia si gioca là dove c’è tutta quella gran fascia di persone, la stragrande maggioranza, che a teatro non ci va e non ascolta né Cimarosa né Stockhausen. Vale a dire a scuola e davanti alla tv.

Di qui la proposta di spostare, letteralmente, i soldi destinati al teatro verso la scuola e la tv e lasciare che ai teatri ci pensino i privati, e che il talento - che c’è - faccia finalmente i conti con chi investe in cultura per fare profitto. Una proposta, come si può ben vedere, molto «di destra», molto «alla Brunetta», almeno per quanto riguarda il teatro. Del resto, che molta sinistra produca oggi un pensiero di destra non è una novità, in un tempo in cui queste parole designano meno un’origine identitaria che una collocabilità di mercato: la sinistra non sarà produttrice di cultura, ma resta un acquirente.

L’idea baricchiana di destinare i contributi allo spettacolo dal vivo per realizzare teatri in tutte le scuole è simpatica e irrealistica, ma risponde a un problema vero: quello di recuperare il senso del teatro a cominciare dalla sua enorme funzione educativa. Io stesso renderei obbligatorio il teatro in tutte le scuole di ogni ordine e grado, perché conosco la sua capacità di mobilitare la persona umana in tutte le sue componenti: ragione, affettività, corpo. Altro denaro andrebbe impiegato in tv, dice lo scrittore, perché si possano realizzare veri programmi culturali, infischiandosene dell’audience.

Ma queste sono questioni di strategia culturale, che c’interessano meno. Più grave, interessante e discutibile (la discutibilità è un pregio, non un difetto) è il giudizio di fondo, sul quale faccio tre considerazioni in margine.

Primo. Nonostante le ire che questi interventi possono suscitare, è bene cominciare a discutere dei temi in essi sollevati, che in Italia sono sempre stati tabù, come le pensioni e il pubblico impiego. Personalmente, non trovo nulla di affascinante, ma nemmeno di orribile, nell’idea che Mondadori o Feltrinelli o l’Esselunga gestiscano dei teatri, come dice Baricco. Ed è salutare che ci si interroghi periodicamente sul senso e sulla forma delle pubbliche sovvenzioni, anche a rischio di qualche terremoto. Niente di ciò che facciamo è eterno, e niente deve esserlo: la cultura o è una risposta al presente o non è.

Secondo. Va da sé, però, che il problema non sta solo nel «che cosa» e nel «dove», ma soprattutto nel «chi». Chi, concretamente, decide come allocare le risorse? Trasferire del denaro significa trasferire un sistema di potere e di controllo, probabilmente fare nuove leggi, e io so per esperienza che in cultura non c’è più trasparenza che altrove. La cultura, prima dei poeti e dei pittori, la fa chi ha in mano le risorse. Se la casta (cioè i burocrati e i loro consigliori) è sempre la stessa, immobile nei secoli, le soluzioni proposte da Baricco sanno di gattopardesco.

Terzo. C’è, non ci si scappa, un problema di fondo, che riguarda la formazione della coscienza culturale del Paese. Baricco mostra di averla a cuore. Però non si sposta, così mi pare, dalla vecchia idea gramsciana secondo cui gli intellettuali sono gli educatori del popolo. Trasferiamoli pure dai teatri alla tv a suon di finanziamenti: il ruolo rimane lo stesso.

Io, da cattolico, dico: cave canem. L’intellettuale maneggia valori e utopie: tutte cose di per sé poco democratiche quando vengano a stringere patti con il potere pubblico.

Il quale, nel momento in cui si riveste del compito di educare il popolo (che non esiste quasi più: meglio usare il termine «popolazione», è meno ipocrita), tende, poco o tanto, a trasformare la cultura in un rituale, in un dovere da assolvere, e non in una possibilità data all’uomo di realizzarsi attraverso la bellezza e la conoscenza.

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