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Barrère, il diplomatico che riavvicinò la Francia e l'Italia

Ambasciatore a Roma dal 1897 al fascismo si adoperò per un'alleanza fra i due Paesi

Barrère, il diplomatico che riavvicinò la Francia e l'Italia

Un celebre pittore d'oltralpe, Paul Albert Besnard, poi direttore dell'Accademia Francese di Roma, realizzò nel 1906 uno splendido ritratto dell'ambasciatore di Francia presso il Regno d'Italia Camille Barrère. Si tratta di un dipinto di grandi dimensioni che raffigura il diplomatico, allora nel pieno della sua maturità, in grande uniforme e in una postura che ne evidenzia le caratteristiche fisiche e la personalità, una bella igura alta e magra, dal volto regolare adornato di baffi e barba com'era d'uso all'epoca, con sguardo intenso, assorto e sottilmente ironico. L'abbigliamento di gala e il portamento disinvolto lasciano intendere come dovesse essere protagonista anche della vita culturale e mondana del tempo.

Quando Besnard lo ritrasse, Camille Barrère (1851-1940) aveva già trascorso quasi un decennio alla guida dell'ambasciata francese di Roma dove era stato inviato nel 1897 e dove sarebbe rimasto fino al 1924. Nella capitale del Regno d'Italia più esattamente negli ambienti culturali e nei circoli aristocratici, presso le alte sfere politiche e nell'ovattato mondo della diplomazia era divenuta, in certo senso, popolare la figura di questo ambasciatore, innamorato del nostro Paese e della sua cultura, compito nel cerimoniale, elegante, piacevole conversatore, abilissimo mediatore.

Lo studio più bello, oltre che scientificamente accurato, dedicato a Barrère è dovuto a un grande storico delle relazioni internazionali, uno dei padri di questa disciplina, Enrico Serra che lo scrisse nell'ormai lontano 1950 agli esordi della sua carriera accademica con una bella prefazione di Carlo Sforza. Oggi quel lavoro, un saggio davvero magistrale di storia diplomatica, viene riproposto in Francia dalla Direction des Archives del Ministère de l'Europe et des Affaires étrangères con il titolo De la discorde à l'entente: Camille Barrère et l'Italie 1897-1924 (pagg. 368, euro 24) in una bella edizione arricchita di nuovi contributi (compreso uno del figlio dell'autore, l'accademico di Francia Maurizio Serra) e di materiale iconografico in parte inedito. Si tratta di un'operazione editoriale importante non solo sotto il profilo scientifico ma anche sotto un profilo «politico» e di attualità perché richiama l'attenzione su una figura che fu centrale per favorire il riavvicinamento franco-italiano.

All'epoca della nomina di Barrère, l'Italia non aveva buoni rapporti con la Francia. L'uscita di scena di Napoleone III dopo la sconfitta di Sedan, la politica di «raccoglimento» inaugurata da Parigi, la «questione romana», l'occupazione francese di Tunisi avevano gettato le premesse per un suo avvicinamento agli Imperi Centrali. Si era, così, costituita nel 1882, per impulso di Bismarck, la Triplice Alleanza che univa alla Germania l'Italia e l'Austria e che era un patto difensivo. Poi, nel 1887, c'era stato il primo rinnovo della Triplice che, con l'inserimento della cosiddetta «clausola dei compensi» voluta dal ministro degli Esteri di Robilant, si era trasformata da alleanza continentale ad alleanza continentale e mediterranea. Infine, il periodo crispino aveva reso sempre più tesi i rapporti fra i due paesi sul terreno della politica commerciale e della politica coloniale.

Giunto a Palazzo Farnese, Barrère si rese conto che in Italia la Triplice poteva contare sull'appoggio della Corona ma non sul favore popolare e si propose di approfittarne. Aveva un programma «massimo», far uscire l'Italia dalla Triplice, e un «programma minimo», che consisteva, usando le armi della diplomazia, nel legare sempre di più fra loro in settori specifici Italia e Francia.

Barrère, come osserva Serra, era «un abile conoscitore d'uomini, un fascinoso parlatore, un furbo persuasore» e al tempo stesso aveva «il gusto della messa in scena e quel tanto di millanteria che non danneggia»: era insomma «un fine psicologo». La sua missione a Roma fu per durata un caso più unico che raro, tanto che Serra può osservare che «raramente la carriera di un diplomatico è coincisa con una sola missione».

Alla diplomazia Barrère era giunto quasi per caso. Appena ventenne era stato un acceso «comunardo» ed era finito esule in Gran Bretagna dove era diventato un giornalista di politica estera. Inviato nel 1879 a seguire il Congresso di Berlino, aveva conosciuto il ministro degli Esteri francese che lo utilizzò come segretario e gli consentì di ritornare in patria. Qui era entrato a far parte della redazione di La République Française, il quotidiano di Léon Gambetta, il quale, colpito dalla sua vivacità intellettuale e dalla sua conoscenza delle questioni internazionali, lo volle in diplomazia. Proprio in questo ambiente Barrère strinse rapporti di consuetudine con il futuro ministro Esteri Théophile Delcassé che lo appoggiò durante la sua missione come ambasciatore a Roma. Qui Barrère ebbe la possibilità di agire, anche nei confronti del Quirinale, con una libertà assoluta e una indipendenza dalle direttive di Parigi che non hanno eguali nella storia diplomatica. Del resto Serra lo argomenta in maniera convincente il piano di riavvicinamento all'Italia, da gran parte della storiografia attribuito al ministro degli Esteri francese, si deve proprio all'ambasciatore che lo aveva, invero, maturato prima ancora di essere destinato a Roma.

Durante il quarto di secolo, e più, della sua missione romana, Barrère assistette o fu protagonista di eventi come il «colpo di timone» impresso alla politica estera italiana da Emilio Visconti Venosta con l'accordo italo-francese sulla Tunisia, i negoziati con Giulio Prinetti che segnarono un ulteriore passo in avanti sulla strada del riavvicinamento fra i due Paesi, lo scambio di visite di Vittorio Emanuele III a Parigi e di Émil Loubet a Roma, i negoziati di fronte allo scoppio della Grande Guerra, la sistemazione post-bellica dell'Europa, l'avvento al potere in Italia del fascismo. In un contesto così complicato e ricco di eventi l'ambasciatore francese che, a detta di Serra, aveva «un temperamento focoso e nervoso» con un mix di «sensibilità, prontezza e anche di esagerazione» riuscì a imporsi nelle negoziazioni grazie alle virtù della «pazienza» e della «saggezza» in mancanza delle quali «non vi è diplomazia tout court».

Scritto all'inizio degli anni Cinquanta, questo lavoro non è solo un saggio di storia diplomatica.

È, anche, un grande affresco, a tutto tondo, delle vicende politiche italiane ed europee del tempo redatto con una padronanza stilistica e un'eleganza narrativa ormai assenti nella saggistica storica.

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