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One and done, come Coach K uccise il college basket

Uno degli allenatori più iconici del basket universitario è stato protagonista di una delle crisi più gravi, quella legata ai giocatori che se ne andavano dopo un anno. La storia di Mike Krzyzewski, storico coach di Duke

One and done, come Coach K uccise il college basket
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Poche cose sono così vicine ai cuori degli amanti dello sport a stelle e strisce dello strano, colorito universo del basket universitario. Se anche i più esagitati appassionati della palla nel canestro al massimo dedicano qualche minuto a seguire i risultati della propria università del cuore, tutto cambia nel mese di marzo, quando il basket Ncaa si prende d’autorità il proscenio e domina in lungo e in largo. Gli ascolti televisivi impressionanti, anche in questa nostra era complicata, dei mille canali e dei mille schermi che attirano la nostra attenzione, ne sono prova provata. Eppure quella che, almeno nel football, continua ad essere la stepping stone fondamentale per preparare i giovani talenti al complicato mondo del professionismo, sta vivendo una delle sue stagioni più complicate. Se, una volta, anche talenti assoluti come Michael Jordan si facevano almeno tre anni di college prima di rispondere alla chiamata della Nba, ormai è normale che basti una sola stagione ai vertici per staccare il biglietto verso il ricco mondo del professionismo.

Michael Jordan NC 1982 ANSA

Il fenomeno ha un nome ben preciso: one and done, un anno e via ed è tra i fenomeni più detestati dagli amanti dello sport di una volta. La cosa veramente curiosa è che l’uomo che, forse, è stato più responsabile di questa involuzione del basket universitario è anche uno dei più grandi coach ad aver mai allenato una squadra della Ncaa. La situazione sta cambiando rapidamente, tanto da convincere lo storico tecnico dei Blue Devils ad andare in pensione ma le conseguenze di questa controversa era sono ancora ben presenti nel mondo del basket. Ecco perché questa settimana Solo in America vi riporta nella Carolina del Nord per raccontarvi la storia di Mike Krzyzewski, il tecnico che ha fatto la fortuna di Duke e, secondo molti, ucciso il basket universitario.

42 anni in panchina e non sentirli

Il Cameron Indoor Stadium, cavernosa arena dove si giocano le partite della squadra di basket della Duke University, è diventata la seconda casa per questo tecnico che da queste parti ha messo su casa. Nel college basketball è normale che un allenatore rimanga alla guida di un programma per anni ed anni ma i 42 anni che hanno visto il classe 1947 regnare sulla cittadina di Durham sono quasi da record. Dal lontano 1980 al suo pensionamento nel 2022 di acqua sotto i ponti del basket ne è passata davvero tanta, ma Coach K ha dimostrato di essere sempre in grado di adattarsi, seguire e guidare l’evoluzione dello sport, come hanno fatto altri due coach di lungo corso come Bill Belichick ai Patriots e Nick Saban alla Crimson Tide di Alabama. Nessuno dei suoi eponimi, però, è stato criticato così aspramente come il tecnico dei Blue Devils, cui molti imputano la grave crisi del basket universitario, capace di prendersi le prime pagine solo durante la March Madness. Molti non se lo ricorderanno nemmeno ma, fino a non tanti anni fa, le partite dell’Ncaa facevano ascolti superiori a quelli della Nba.

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Come siamo arrivati a questo punto? Il profilo che il Washington Post dedicò qualche anno fa a Coach K offre una spiegazione già dalle prime righe: stagione 2019, senior night, gran pubblico per salutare i giocatori che, dopo quattro anni, dovranno salutare il varsity team, la prima squadra. Ci sono le stelle del passato, il pubblico, i compagni di squadra ma nessuno fa molto caso a Brendan Besser e Antonio Vrankovic, gli unici due giocatori al quarto anno nel roster di Coach K. Come mai? Perché in due hanno giocato una media di cinque minuti senza mai partire come titolari. In realtà la festa è per i quattro novellini, gli straordinari freshmen che, seguendo la regola non scritta resa popolare proprio da Coach K, se ne andranno nella Nba dopo un solo anno. Proprio quei quattro talenti, guidati dallo straordinario Zion Williamson, avevano attirato l’attenzione di tutti, con gente come LeBron James, Jay-Z e lo stesso ex presidente Barack Obama che si era presentata per vedere le partite di Duke dal vivo.

Zion Williamson Pelicans Nets ANSA

L’unica costante, l’uomo in panchina che, nonostante abbia passato buona parte dei suoi 72 anni a difendere l’ortodossia del basket, la cosiddetta right way, ha deciso che l’unico modo di rimanere competitivo fosse adottare questa nuova pratica ed abituarsi all’idea di dover rifare una squadra ogni anno. “Il mondo è cambiato, dobbiamo adeguarci o morire” dice Coach K ed i tradizionalisti storcono la bocca. Dopo aver passato trent’anni a fare le cose come si deve, arrivando spesso e volentieri alla Final Four e vincendo pure, si convinse di dover cambiare i suoi metodi quando subentrò a Gregg Popovich come tecnico della nazionale statunitense. Duke, bastione del basket di una volta, si trovò spiazzata di fronte a giovani talenti che non avevano più voglia di buttare quattro anni senza prendere un dollaro quando la Nba era prontissima a ricoprirli d’oro. Coach K si ritrovò costretto a cambiare il suo sistema: niente più crescita graduale, stagione dopo stagione, bisogna raccogliere i talenti migliori nelle scuole superiori, farli giocare assieme in qualche modo ed abituarsi all’idea che bisognerà ripartire da zero l’anno prossimo.

Coach K il tradizionalista

Quando arrivò a Durham, dopo cinque discrete stagioni ad allenare la squadra dell’Esercito Americano, pochi avrebbero scommesso un solo dollaro su questo atipico allenatore ed i suoi strani metodi di allenamento. Ci mise qualche tempo a cambiare il programma, sei anni prima che i Blue Devils approdassero di nuovo nella Final Four: quella squadra che fu sconfitta solo tre volte in un’intera stagione era composta da giocatori esperti, che aveva fatto crescere anno dopo anno. Con i suoi quattro senior in squadra, il metodo sembrava funzionare, tanto che dal 1988 al 1993 Duke approdò sempre alla Final Four, la seconda striscia di partecipazioni più lunga nella storia del basket universitario. La squadra del 1991, quella che aveva in squadra gente come Grant Hill e il controverso Christian Laettner, fu in grado di battere in semifinale una superpotenza come Nevada Las Vegas, che l’anno prima gli aveva rifilato 30 punti. Dopo aver piegato i Running Rebels, i Blue Devils sconfissero Kansas, vincendo il primo dei cinque titoli di Coach K. Il secondo arrivò l’anno dopo, quando si presentò sul parquet la stessa squadra, resa ancora più temibile dalla maggiore esperienza. Era un sergente di ferro ma i suoi metodi funzionavano, spinti dalla sua incredibile determinazione e dalla voglia di controllare tutto, anche nei minimi dettagli. Quando ci mise quasi un’intera stagione per recuperare dopo un’operazione alla schiena, il programma fu sul punto di collassare ma riuscì a tornare in pista, arrivando altre volte alla Final Four e portando a casa il terzo titolo nel 2001.

Coach K Zion Duke 2019 Fotogramma

Ogni tanto capitava che uno dei suoi giocatori lasciasse la squadra in anticipo, come quando Elton Brand diventò il primo giocatore di Duke a trasferirsi nella Nba in anticipo e Coach K ci rimaneva male: “nessuno di loro era più importante del programma” diceva, ma anche lui si era accorto che le cose stavano cambiando. Nel 2005, quando la Nba cambiò le regole del draft per evitare che i giocatori arrivassero al professionismo direttamente dalla high school, il tecnico di Duke sembrava convinto che niente sarebbe cambiato. “Non sceglierei mai un ragazzo che mi dice ‘vengo solo per un anno’. Non l’ho mai fatto e non credo che la nostra scuola dovrebbe piegarsi a questa logica. Sarebbe come se dicesse ‘vi voglio usare per un anno ed andarmene subito’, non dovremmo accettare questi ragionamenti”. A fargli cambiare idea sarebbero stati i talenti della Nba, ansiosi di tornare alla vittoria dopo la figuraccia alle Olimpiadi di Atene. Gli anni ‘90 e 2000 erano stati positivi per Duke, ma, poco alla volta, le cose stavano cambiando: Corey Maggette nel 1999 se n’era andato dopo una sola stagione, attirando l’ira dei tifosi e la rabbia di coach K.

Kobe Bryant Lebron James All Star 2013

Quando ebbe il compito di allenare gente come LeBron James, Kobe Bryant o Dwyane Wade, il tecnico di Duke decise che era giunto il momento di cambiare marcia. Il sergente di ferro imparò a parlare coi suoi giocatori, accettando il loro contributo, delegando ai suoi aiutanti Mike D’Antoni e Tom Thibodeau l’attacco e la difesa, addirittura passando alla difesa a zona, una bestemmia per un tradizionalista come Coach K. Eppure i suoi nuovi metodi ebbero successo, riportando Team USA sul tetto del mondo, giocando un basket moderno e divertente. L’esperienza avrebbe cambiato per sempre il tecnico di Duke.

La nuova Duke di Coach K

Quando la Nba cambiò davvero le regole del draft, nel 2006, Coach K non fu pronto a seguire il nuovo trend e le fortune di Duke ne soffrirono parecchio. Sempre meno giocatori di talento erano disposti ad andare a Durham, non quando, a pochi chilometri di distanza, Roy Williams e North Carolina stavano vincendo titoli su titoli. John Calipari, il controverso tecnico di Kentucky, era stato il primo ad affidarsi completamente a giocatori che sarebbero rimasti per una sola stagione e molti lo vedevano come un vero e proprio eretico. La foglia di fico dell’offrire una laurea a giocatori che non si sarebbero mai potuti permettere le costose rette universitarie fu abbandonata senza problemi: l’unica cosa che contava era vincere e Duke non era più in grado di reggere il passo delle rivali. Nel 2008, poco dopo che West Virginia aveva sconfitto i Blue Devils nel secondo turno del torneo Ncaa, Coach K mise di fronte il suo staff ad una scelta chiara: prendere i migliori talenti senza preoccuparsi se sarebbero andati via l’anno dopo o trovare un modo di batterli sul campo. Nel 2009, quando Duke ingaggiò il talentuoso Kyrie Irving, fu chiaro che Coach K aveva cambiato idea. Il talento del New Jersey giocò solo undici partite con la maglia dei Blue Devils nella stagione 2010 e se ne andò l’anno dopo, prima scelta nel draft Nba.

Kyrie Irving Nets Celtics 2023 ANSA

Non fu facile abituarsi a questo nuovo modo di allenare ma il mondo stava cambiando e Duke doveva adattarsi o morire. I risultati arrivarono subito, con il quarto titolo di Coach K, con una serie di giocatori che se ne sarebbero presto andati. Kyrie Irving fu seguito da Austin Rivers, poi da Jabari Parker, tanto da far pensare a molti che, dopo aver resistito per anni ed anni, il tecnico dei Blue Devils era diventato il re dello one and done, riuscendo anche a battere il poco amato Calipari. Anno dopo anno il numero dei giocatori che se ne vanno dopo una sola stagione è cresciuto vertiginosamente ma senza che Duke riesca ad essere così dominante come una volta. Coach K lavorava sempre tantissimo, controllando ogni minimo dettaglio, girando il paese cercando giovani talenti da convincere a giocare per lui, in una giostra che non si ferma mai. Nonostante l’età avanzata, Coach K aveva ancora voglia di lottare: “anche quando sono stanco mi fermo e cerco di riattizzare la passione per questo gioco. Non voglio fermarmi”. Alla fine, però, Coach K ha deciso di mollare, forse quando si è accorto che il mondo del basket stava per cambiare ancora.

Super-talenti, da Banchero a Zion

Sebbene non sia stato certo il primo a seguire questa discussa pratica, Mike Krzyzewski è stato capace di convincere un numero cospicuo di talenti a vestire la maglia di Duke. Dal 1999 al 2022, sono stati 26 i giocatori dei Blue Devils a lasciare Durham dopo una sola stagione, un numero reso ancora più impressionante dal loro calibro. Duke, una delle roccaforti del basket tradizionale, divenne secondo i critici “One-and-Done U”, la patria di questo nuovo modo di costruire una squadra di pallacanestro. L’elenco di questi giocatori fatto a suo tempo da Sports Illustrated, è un’interessante misto di nomi molto familiari ai tifosi della palla a spicchi e diversi talenti che hanno raccolto molto meno di quanto ci si sarebbe aspettati da loro. Ancora più impressionante il fatto che la tendenza sembra essersi accelerata negli ultimi anni: se, complessivamente, dal 1999 al 2022 solo 1,1 giocatore ogni stagione se n’è andato dopo una sola annata, il numero sale a 2 se si considera solo gli anni dal 2011 e addirittura 2,9 dal 2015: perdere più di metà del quintetto base ogni singolo anno, una roba impensabile solo vent’anni fa che è diventata la normalità nel basket universitario. Il nome più conosciuto alle nostre latitudini è quello che sarebbe il sesto migliore one-and-done di Coach K, l’italo-americano Paolo Banchero. Le medie fatte vedere nelle 39 partite giocate con la maglia dei Blue Devils e la sconfitta nella Final Four nell’anno dell’addio dell’iconico coach di Duke sono state sufficienti a guadagnargli la prima scelta nel draft Nba.

Banchero All Star 2023 ANSA

Tutto sommato, però, Banchero è uno dei talenti che hanno saputo convertire meglio il talento mostrato nel college basketball nella carriera da professionisti, cosa niente affatto scontata. Ci sono storie francamente strane, come quella di Jalen Johnson, arrivato a Durham nel 2020 e partito a metà stagione, dopo solo 13 partite, per tornarsene a casa sua, evento unico nella storia di Duke. C’è poi il talento che iniziò il tutto, Kyrie Irving, le cui undici partite gli sono valse comunque l’esposizione mediatica necessaria per strappare il primo posto nel draft. Se non si fosse infortunato, però, avrebbe potuto fare molto meglio: le prime otto partite giocate con la maglia dei Blue Devils furono davvero memorabili. Molti dei nomi elencati sono però del tutto dimenticabili ed hanno lasciato ricordi solo nei maniaci di Duke, quelli che non si perderebbero mai neanche una partita della loro alma mater. Il problema, in fondo, è tutto qui: senza il tempo per sviluppare un seguito, per mostrare un minimo di crescita, per farsi apprezzare da una tifoseria, non si riescono a creare miti ma solo momenti buoni per i video da postare sui social. È la logica del basket mordi e fuggi, dei talenti fungibili da sfruttare per quanto basta per vendere una maglietta, firmare un paio di autografi e passare oltre, un’ammissione implicita del ruolo di Cenerentola del college basketball, vaso di coccio nel ricco universo mediatico dei nostri giorni.

Bargnani Luol Deng 2016 ANSA

Chi di voi ricordava che Luol Deng aveva giocato dal 2003 al 2004 in quel di Duke? Blink and it’s gone, basta distrarsi un attimo e te lo perdi. Non fece nemmeno male, anche se fu membro del miglior quintetto di Duke a non vincere un titolo nazionale: in un mondo diverso, senza l’ossessione di passare subito alla cassa, lui, JJ Redick e Shelden Williams avrebbero avuto tempo di crescere, diventare una vera squadra e, magari lasciarsi alle spalle un ricordo migliore. Ovviamente non ne avremo mai la prova ma non pochi tra gli esperti di basket pensano che le nuove superstar, i talenti come Banchero, RJ Barrett e soprattutto Zion Williamson sarebbero diventati giocatori più completi se avessero avuto tempo di migliorare con calma a Durham, sotto la guida di un allenatore come il Mike Krzyzewski prima maniera. Senza il tempo e l’impegno necessario per crescere dal punto di vista tattico, diventano quindi splendide macchine da highlights, preoccupati solo dalle proprie statistiche ed incapaci di sacrificarsi per il bene della squadra. Il fatto che non sembrino emergere talenti a tutto tondo capaci di reggere il confronto con gli uomini-squadra arrivati dall’altra parte dell’Atlantico, gente come Nikola Jokic o Luka Doncic, è solo l’ultima conseguenza della fine del basket di una volta, quello che Coach K ha contribuito ad affossare.

Jokic Denver parade 2023

La fine di un’era

Quando nel 2021 il leggendario coach di Duke ha fatto sapere che la prossima sarebbe stata la sua ultima stagione in panchina, pochi sono rimasti davvero sorpresi dalla sua scelta. A parte l’età certo non giovanile, l’idea stessa che un allenatore con così tanta esperienza sarebbe stato costretto a rivoluzionare ancora il suo modo di lavorare sembrava assurda. Coach K si è accorto che non aveva più né la voglia né la determinazione di reinventarsi ancora ed ha gettato la spugna. Il cambiamento è stato reso necessario dal fatto che one-and-done è diventato il capro espiatorio di tutti i guai del basket. Fin da quando è stato istituito il minimo di 19 anni per entrare nel draft Nba, nel 2005, questa pratica è finita mille volte sul banco degli imputati per la crisi strisciante che sta mettendo a rischio tanti programmi della Ncaa. Poco importa che il numero di squadre che si concentrano quasi esclusivamente sui freshmen sia estremamente limitato o se il problema impatti un numero ancora più ristretto di giocatori di grande talento: one-and-done è diventato la fonte di ogni male. Che il sistema della Ncaa sia allo stesso tempo incredibilmente farragginoso e soggetto ad ogni genere di stortura è certo ma il cambiamento è arrivato sotto forma di una vera e propria rivoluzione. Prima c’è stato il mercato trasferimenti, che ha visto i vari programmi top scatenarsi nella caccia ai talenti, anche a metà stagione, poi le regole sui diritti d’immagine, scappatoia che ha consentito a molti giocatori promettenti di superare il dogma del dilettantismo ed incassare assegni a sei o sette zeri.

Banchero Magic Kings 2023 ANSA

C’è chi parla di un nuovo cambio delle regole del draft Nba, per consentire ai ragazzi di arrivare già dalla high school ma la concorrenza per assicurarsi i talenti del basket è feroce: c’è il programma Ignite della Nba, il campionato Overtime Elite, alcuni campionati europei molto attenti al mercato statunitense, le opzioni non mancano. La commissione guidata dall’ex segretario di stato Condoleeza Rice, nel proprio rapporto finale, si scagliò contro la regola, dicendo che sarebbe stata all’origine degli arresti di quattro assistenti di programmi dell’Ncaa nel 2017 per aver provato ad aggirare i regolamenti. Il college basketball rischia di restare legato a regole ormai antiquate ma incapace di immaginarsi un futuro nel nuovo mondo all’insegna dei social, degli influencer e di giocatori buoni solo a farsi pubblicità. D’altro canto, alcuni dei talenti più cristallini del basket professionistico non avevano mai giocato al college: da Kevin Garnett a Dwight Howard, da Kobe Bryant a LeBron James, tutti erano approdati alla Nba giovanissimi, senza bisogno nemmeno di passare una stagione al college. C’è chi spera che il basket applichi una regola simile a quella del baseball, dove si può entrare nel draft già una volta diplomati ma si è costretti a giocare due stagioni al college prima di poter giocare da professionisti ma le possibilità che questa diventi la realtà sono davvero poche.

Lebron James Lakers Nuggers 2023 ANSA

Un futuro molto incerto

Nessuno sa come sarà la pallacanestro del futuro. Diversi in America guardano con interesse il sistema europeo, dove le squadre fanno crescere i propri talenti fin da giovanissimi per dargli spazio in prima squadra senza troppi vincoli, consentendo ad uno come Luka Doncic di giocare in Eurolega ben prima di arrivare alla maggiore età. Vedremo i Boston Celtics usare una delle loro scelte al draft per un ragazzino di 15 anni da pagare profumatamente per tre, quattro anni, sperando che diventi un campione? Che ruolo avrà l’Ncaa, ora che il mito del dilettantismo è finito nella spazzatura? Diventerà un campionato normale, con gente il cui legame con l’università è quantomai labile? Ci saranno forse accordi con le franchigie Nba, che accetterebbero di far giocare i propri talenti nel campionato universitario come se fosse una lega minore? Tutto è possibile. Una cosa è certa: l’era degli instant team, le squadre fatte per vincere subito, rivoluzionate anno dopo anno, è finita e ben pochi ne sentiranno la mancanza.

Arkansas Connecticut NCAA 2023 Fotogramma

Poco prima di annunciare il suo ritiro, lo stesso Mike Krzyzewski aveva dichiarato alla ESPN che il basket universitario aveva bisogno di una rivoluzione, di superare la regola dello one-and-done. Secondo il coach di Duke “la Nba è pronta al futuro, mentre la Ncaa non lo è. Bisognerà agire in concerto con la Nba e preparare un piano specifico per il basket universitario maschile. Bisogna pensare a tutto, a quanto un giocatore è pagato, come avere cura del suo futuro, se serve una specie di paracadute, è una questione complessa. Se cercheremo scorciatoie faremo un grave disservizio ai giocatori”. Il fatto che parlasse mentre guidava una squadra con quattro freshmen pronti a partire per la Nba, guidati da Zion Williamson, ha fatto sorridere più di un osservatore. I problemi sollevati erano decisamente più seri, come si notò quando a febbraio la superstar di Duke si fece male alla caviglia, saltando più di un mese di partite. Perché mai rischiare un infortunio più grave quando non guadagni un solo dollaro e all’orizzonte hai un contratto milionario? Coach K se la prese anche con il modello del dilettantismo: “è superato, serve un modello nuovo. In un mondo che sta cambiando così tanto, bisogna lavorare assieme per pensare un nuovo futuro. Se non lo facciamo, a pagare più di tutti sarà il nostro sport”.

Coach K Rio 2016 ANSA

Ora che è quasi nei libri di storia, si può forse azzardare un verdetto su questo modo di fare una squadra di basket, un’era strana, pazzesca e durata meno di vent’anni. C’è chi dice che, ancora prima di finire sul banco degli imputati, costruire le squadre in questo modo è stato un mezzo fallimento ma, in realtà, i numeri sembrano dare ragione a Coach K. Certo, Paolo Banchero e compagni non sono riusciti a consegnare allo storico tecnico il suo sesto titolo Ncaa ma North Carolina, Baylor e Villanova erano riuscite a trionfare schierando quasi esclusivamente seniors, giocatori con alle spalle quattro anni al college. A parte Kentucky e Duke non sono molte le squadre che hanno vinto con questo modello ma basta dare un’occhiata alle Final Four degli ultimi anni per verificare come fossero quasi sempre lì, a giocarsi il titolo fino alla fine. Il modello, in fondo, faceva comodo anche alle franchigie Nba, che avevano tempo di vedere i vari talenti in azione in gare competitive, magari non solo al college ma anche in Eurolega o nella G League. Ormai, però, sono troppi a chiedere a gran voce una rivoluzione.

Banchero Magic Warriors

Coach K ne ha avuto abbastanza e si è chiamato fuori, sfiancato dai salti mortali necessari per mettere assieme una squadra di grandi talenti usa e getta anno dopo anno. Visti gli ascolti importanti, difficile che la March Madness diventi una lontana memoria ma il futuro della Ncaa è davvero a rischio. Gli amanti del basket di una volta dovranno farsene una ragione e sperare che si trovi un modo di far sopravvivere questo curioso torneo che è tuttora molto amato. Non sarà però semplice trovare un modo di riconciliare le regole fuori dal tempo del college basketball con la modernità. Ce lo auguriamo davvero: la pallacanestro ha già perso molta poesia e mistica negli ultimi anni.

Senza la lucida follia del basket universitario saremmo tutti più poveri.

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