La faccia di Adam Silver, il «commissioner» della Nba, non era proprio quella della festa. Il boss di una lega che genera un business di 11 miliardi l’anno aveva appena visto la partita più attesa della stagione e ne era chiaramente disgustato. E il problema è che quello spettacolo, che è sempre meno sport, non piace più.
Domenica scorsa a Las Vegas c’è stato l’All Star Game, la sfida di metà stagione a cui tutti i giocatori sperano di partecipare una volta della vita, a cui tutti i tifosi vorrebbero esserci, per la quale tutte le Tv fanno a gara. Almeno fin qui. Invece proprio nella città Luna Park che fa degli effetti speciali la sua ragione di vita, l’incantesimo si è rotto e i cocci, per chi pensa appunto che lo sport debba essere sempre più spettacolo aldilà della competizione, cominciano ad essere difficili da ricomporre. Quella che era solo una partita, nel corso degli anni è diventato un weekend da Circo Barnum. Quello che una volta era l’ambitissimo Est contro Ovest è tornato ad esserlo dopo tentativi vari di comporre selezioni decise dai big del campionato, eppure il tuffo nel passato ha trovato una piscina vuota.
Le crepe erano già state viste dallo stesso Silver un anno fa: le stelle del basket americano arrivano al match ormai quasi controvoglia, e non lo nascondono neppure. Anthony Davis, il compagno di canestri di LeBron James ai Los Angeles Lakers, ha candidamente ammesso: «Tutti vorremmo vedere una partita competitiva, ma noi da giocatori cerchiamo di non farci male se non c’è in palio nulla. Nessuno vuole rischiare la seconda metà di stagione nella quale siamo in lotta 211-186 per l’Est, alla fine di un tiro al canestro travestito da donna barbuta, che lo stesso commissioner ha celebrato con quella faccia disgustata: «Complimenti: avete segnato il maggior numero di punti... Beh, congratulazioni». Si dice che quel che succede a Las Vegas, rimane a Las Vegas: ma se il campionato simbolo dello sport moderno subisce un colpo del genere, la botta è per tutti.
Perché: quante volte abbiamo sentito parlare del «modello Nba»?
Ecco lo show deve fatturare a tutti i costi, deve essere globale, in cui la classifica che conta è quella del denaro, poi chi vince è bravo ma lo spettacolo è meglio. Invece la gente, ma ormai anche i protagonisti, vogliono competere, vincere trofei, giocare sul serio. Poi, certo, anche guadagnare. Solo che il «modello» è passato di bocca in bocca anche negli altre discipline, nella quali si comincia a percepire una ribellione al sistema. Per esempio quando, sempre a Las Vegas, è arrivata la Formula Uno, il suo campione del mondo – Max Vestappen - ha inveito contro le mille luci dello show: «Questo non è motorsport, mi sono sentito un pagliaccio». E che dire della MotoGp diventata quasi monomarca (e non è colpa della Ducati), dello sci nel quale saltano legamenti e muscoli per le troppe gare o della prossima mega Champions League di calcio, dove tanto vincerà sempre una delle stesse, però la Superlega «era solo business»? Il rischio è evidente, la faccia di Silver non mente: se lo sport non è più competizione, un giorno anche gli affari potrebbero finire quando la gente, le Tv e perfino gli atleti si stuferanno di essere la provincia dell’impero.
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