Solo in America

Sonic Boom, come la NBA scippò la squadra a Seattle

Nel 2008, nel giro di poche settimane, una delle tradizionali capitali del basket perse la propria franchigia in circostanze controverse. La storia di come Seattle passò dalla gloria dei Sonics di Kemp e Payton al deserto è tanto strana quanto incomprensibile

Sonic Boom, come la NBA scippò la squadra a Seattle
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Il feticismo è parte integrante dell’essere un tifoso degli sport americani in Italia. Visto che vivere l’esperienza dal vivo rimane un sogno per molti, l’unica cosa che hai per rinfocolare la passione sono oggetti con il logo di questa o quella squadra. Per chi ha questa insana passione, non importa nemmeno quale. Quando ero piccolo, mio padre mi comprò un bel bomber blu elettrico dei New Jersey Nets. Il fascino della NBA era tale che mi andava bene avere anche il logo di una squadra oggettivamente scarsa. Una delle magliette alle quali tengo di più è ormai sbiadita dai mille lavaggi. Il nero è ormai quasi grigio, ha un paio di buchi rimediati chissà dove ed il logo si vede a malapena ma non me ne separerei mai. Perché mai? Perché mi ricorda una delle storie più pazzesche dello sport americano, quando una grande squadra, sul punto dell’ennesima rinascita, si ritrovò spedita, baracca e burattini, dall’altra parte del continente. Ecco perché, questa settimana “Solo in America” vi porta tra le nebbie e le eterne piogge del nord-ovest degli Stati Uniti per raccontarvi la storia dei Seattle SuperSonics, l’eterna ossessione di una città malata di basket.

Seattle Skyline Wikimedia

Gli umili inizi

La storia d’amore tra la città più piovosa d’America e lo sport del Dottor Naismith era iniziata molto prima, ma il basket professionistico approda a Seattle verso la fine degli anni ‘60, quando la città era diventata ricca grazie alle imprese del settore aerospaziale, a partire dalla Boeing. I mercati danarosi alla NBA sono sempre piaciuti, tanto da considerare una città decisamente periferica per il giro degli expansion teams della stagione 1967/68. Curiosamente anche l’altra città, San Diego, finì col perdere la propria franchigia ma ci mise decisamente meno, visto che i Rockets si trasferirono a Houston solo quattro anni dopo. Il nome scelto dalla nuova franchigia, ovviamente, era legato alla ditta che dava lavoro a centinaia di migliaia di cittadini dello stato di Washington ma fu una specie di autogol. SuperSonic, infatti, era il nome del mirabolante aereo di linea supersonico che, nelle intenzioni della Boeing, avrebbe dovuto spazzare via dal cielo l’anglo-francese Concorde.

Boeing Supersonic SST Wikimedia

Pochi anni dopo, quando il Congresso americano decise che buttare miliardi su un prodotto di nicchia non era il massimo in un periodo di crisi, il super-aereo rimase sulla carta ma la franchigia si tenne il nome ed i colori, quel bianco e verde impressi a fuoco nella mente degli amanti dell’NBA di una volta. Gli inizi della nuova franchigia furono complicati, visto che doveva giocare in un’arena costruita per l’esibizione universale del 1962, il Seattle Center Coliseum. A parte gli anni dal 1978 al 1985, nei quali giocò nel Kingdome, uno stadio coperto condiviso dalle quattro squadre cittadine, la KeyArena avrebbe portato bene ai Sonics, come lo storico logo, con la palla da basket gialla, la skyline di Seattle con tanto di Space Needle che, ancora oggi, fa bella mostra di sé nella mia maglietta d’annata. Ci sarebbe però voluto parecchio tempo prima che i Sonics riuscissero a farsi strada in una lega sempre più affollata e competitiva.

Dalle stalle alle stelle

I primi anni ‘70 videro la NBA impegnata nella complicata fusione con la rivale ABA, un momento perfetto per i Supersonics, che stavano passando da una delusione all’altra nonostante avere una leggenda come Bill Russell in panchina. Nel 1974 arrivò la prima vittoria nella post-season, con il trionfo nella serie contro i Pistons ma non durò a lungo: tre anni dopo, l’ex Boston preferì lasciare il posto al cugino Bob Hopkins. La cosa, prevedibilmente, non funzionò ma i passi avanti erano evidenti, tanto che nel 1977 i Sonics arrivarono per la prima volta alla finalissima. Sfortunatamente si bloccarono sul più bello, perdendo in gara 7 contro i Washington Bullets. L’anno dopo, però, coach Lenny Wilkens riuscì a rendere pan per pariglia a Washington, portandosi a casa l’anello in cinque partite, trascinati da Dennis Johnson. Quello che sembrava il primo di una lunga serie di trionfi restò invece l’unico titolo vinto dai Sonics a Seattle. Dopo aver perso nel 1980 contro i Lakers nella finale della Western Conference, la squadra fu più o meno smantellata, precipitando nel giro di una sola stagione.

Gary Payton Lakers 2003

Ci sarebbero voluti 16 anni prima di vedere Seattle tornare ai vertici ma la squadra messa assieme da coach George Karl è ricordata come una delle migliori di tutti i tempi. A parte le 64 vittorie in regular season, il quintetto base era impressionante, mettendo insieme oltre 70 punti a partita, oltre a dominare la lega in palle rubate. Trascinati dalla coppia d’oro Shawn Kemp/Gary Payton, Seattle pulì il parquet con i Sacramento Kings nella stagione 1996, liberandosi dei due volte campioni Houston Rockets in quattro partite, per poi faticare assai contro gli Utah Jazz grazie ad un partitone clamoroso di Kemp in gara 7. Sfortunatamente per i malati di basket della Emerald City, ad attenderli in finale c’era un certo Michael Jordan. L’impatto coi suoi Bulls, reduci da una delle migliori stagioni di sempre, fu brutale: tre sconfitte consecutive, parzialmente rimediate vincendo gara 4 e 5 a Seattle. Purtroppo mettersi tra MJ e un anello è una pessima idea: nonostante una prestazione coraggiosa, i Bulls si portarono a casa la serie in gara 6. Sembrava l’inizio di una storia meravigliosa, un periodo d’oro per il Pacific Northwest ma, in realtà, le cose iniziarono ad andare di male in peggio. I dieci anni successivi sarebbero stati gli ultimi del basket a Seattle.

Il lungo tramonto

Uno alla volta, i tre protagonisti dei migliori Sonics della storia, se ne sarebbero andati nel giro di pochi anni. Il primo fu il giocatore chiave della squadra, Shawn Kemp, arrivato nel draft 1989 come diciassettesima scelta e diventato nel giro di poche stagioni uno dei giocatori iconici dell’NBA degli anni ‘90. Il rapporto con Seattle, che sembrava a prova di bomba, sarebbe stato incrinato subito dopo la serie di finale contro i Bulls di MJ. Nell’estate del 1996 i Sonics garantirono un contratto milionario al free agent Jim McIlvaine, un pivot necessario per far fare il salto di qualità al quintetto di coach Karl. Shawn Kemp, il cui caratterino è leggendario nella lega, la prese malissimo, chiedendo a gran voce di essere ceduto. La finale contro Chicago fu la sua personale last dance: dopo una dimenticabile stagione, sarebbe finito a Cleveland, dove non avrebbe raggiunto i livelli visti alla KeyArena. Il prossimo pezzo del domino a cadere fu il leggendario allenatore, il cui regno a Seattle è tra i più vincenti della storia della NBA, riuscendo a superare anche il grande Phil Jackson. Nelle sei stagioni passate ai Sonics, nella regular season le sue squadre vinsero sempre più di 55 partite per poi fare decisamente meno bene nei playoff. Le sconfitte prima contro i grandi Rockets di Barkley, Olajuwon e Drexler poi contro i Lakers di Shaq e Kobe al secondo turno furono la goccia che fece traboccare il vaso.

George Karl Nuggets 2005

Il licenziamento di uno dei coach più vincenti di sempre non fu preso per niente bene dallo spogliatoio, incrinando ulteriormente il rapporto con l’ultima superstar rimasta, Gary Payton. Arrivato come seconda scelta nel draft 1990, Payton ci mise qualche anno prima di esplodere ma, a partire dal 1994 diventò uno dei giocatori più dominanti della NBA, specialmente in difesa. Nonostante le richieste arrivate più volte alla sua porta, decise di provare a caricarsi la squadra sulle spalle, resistendo fino al 2003. A quel punto, con la squadra in confusione totale, Seattle provò l’azzardo del secolo: un campione esperto e carismatico come Payton per un giovane di talento come Ray Allen. Il trade con Milwaukee, invece di riportare all’età dell’oro i Sonics fu solo l’inizio della fine. Allen fece il suo, mettendo 25 punti di media e arrivando quattro volte all’All Star Game. Il resto della squadra, purtroppo, non era al suo livello. Dopo quattro stagioni quasi disastrose, tutti a Seattle erano d’accordo che qualche cambiamento era necessario. Certo non si potevano immaginare che, nel giro di poche settimane, avrebbero perso la loro amatissima squadra.

L’inspiegabile addio

Il draft 2007 fu salutato con incredibile entusiasmo a Seattle. Come dargli torto? Con la seconda scelta arrivò un giocatore che capita una volta ogni morte di Papa, un certo Kevin Durant. Il solido Ray Allen tornò sulla East Coast, ai Boston Celtics, in cambio della quinta scelta e un altrettanto convincente Jeff Green. Non ci volle molto per capire che, nonostante le grandi potenzialità, KD non avrebbe potuto fare il miracolo. La stagione 2007/08 fu la peggiore di sempre per i SuperSonics, 20 vittorie e 62 sconfitte, nonostante i 20 punti di media di Durant e gli 11 di Green. Quel che successe nel giro di poche settimane lasciò di stucco i tifosi dei Sonics. Howard Schultz, lo storico proprietario, aveva venduto la franchigia a Clay Bennet, una scelta dovuta alla frustrazione che rimpiange ancora oggi: “Vendere i Sonics è uno dei più grandi rimpianti della mia vita professionali. Avrei dovuto accettare di perdere qualche soldo fino a quando non si fosse presentato un acquirente del posto”. A sentire Schultz, il gruppo di Bennet non si era comportato in maniera onesta, visto che trasferire la franchigia gli avrebbe permesso di incassare centinaia di milioni offerti dalla città di Oklahoma City per una nuova arena. Schultz provò a bloccare il trasferimento della franchigia andando in tribunale, ma la NBA si schierò apertamente con la nuova proprietà, segno che, evidentemente, la prospettiva di un nuovo mercato nel Sud del paese aveva ingolosito anche il commissioner.

Durant Westbrook OKC 2012

Quando la NBA minacciò di prendere le redini della franchigia, Schultz capì che una battaglia in tribunale sarebbe stata una lotta contro i mulini a vento e mollò il colpo. Nonostante il dolore per l’addio fosse stato enorme, le sofferenze per i tifosi dei Sonics erano solo all’inizio, visto che la franchigia si era già assicurati tre pezzi da novanta che avrebbero scritto il futuro dello sport. Dopo Kevin Durant, nel draft 2008 arrivarono Russell Westbrook e Serge Ibaka, seguiti l’anno dopo da James Harden, il primo ad arrivare ad OKC. Quando il 3 settembre 2008 i Seattle SuperSonics diventarono ufficialmente gli Oklahoma City Thunder, i quattro giovani talenti sarebbero diventati le fondamenta di una squadra memorabile. La vendetta sarebbe arrivata qualche anno dopo, quando, nonostante una regular season dominante, sarebbe stata una vecchia stella di Seattle ad impedirgli di vincere il primo anello. Nella squadra che stese OKC nelle Finals del 2012, accanto a LeBron James, Chris Bosh e Dwyane Wade, c’era infatti Ray Allen, le cui triple furono decisive per affondare i Thunder. Una magra consolazione per una città che non si è ancora ripresa dallo choc.

Seattle ci crede ancora

Una delle clausole del contratto con la nuova proprietà garantì che il nome ed i colori storici della franchigia di Seattle non sarebbero stati usati ad Oklahoma City. La situazione è poco chiara, ma sembra che OKC detenga ancora il marchio, anche se ha preferito lasciare le maglie storiche, i trofei ed il resto a Seattle, in un museo cittadino. Questo, paradossalmente, potrebbe aprire le porte ad una prospettiva affascinante: la rinascita dei leggendari SuperSonics, anche se dopo aver pagato una somma considerevole ai Thunder. Il grande amore per il basket non è certo passato inosservato, come la nostalgia dei tifosi della pallacanestro di una volta per una delle arene più calde di tutta la lega. Normale, quindi, che ogni tanto spuntino fuori delle voci su franchigie interessate a riappropriarsi della KeyArena, che oggi ha un nome orribile, fin troppo woke, Climate Pledge Arena. Gli Atlanta Hawks ed i Milwaukee Bucks ci pensarono qualche anno fa, prima che i nuovi proprietari trovassero finanziamenti dalle varie amministrazioni locali per convincerli a restare.

Bring Em Back Youtube

Chi ci andò più vicino, nel 2013, furono i Sacramento Kings: un paio di anni prima, un manager di hedge fund di Seattle, Chris Hansen, iniziò a comprare terreni vicini agli stadi dei Seahawks e dei Mariners per costruire una nuova arena. Una volta ottenuto il permesso del sindaco, si presentò ai Kings, che avevano enormi problemi a fare autorizzare la costruzione di una nuova arena a Sacramento. Dopo aver trovato l’accordo con la famiglia Maloof, ci pensò l’ineffabile David Stern a rovinare il tutto. “Convinti” dalla NBA, un gruppo di imprenditori locali si fece avanti, promettendo di tenere la squadra nella capitale californiana. Alla fine toccò ai proprietari delle franchigie NBA decidere sul trasferimento: il netto 22-8 garantì che i Kings non sarebbero diventati i nuovi SuperSonics. La cosa, onestamente, non è dispiaciuta troppo a Seattle: anche se sono migliorati molto, i Kings sono stati pessimi per diversi lustri e vederli arrivare non sarebbe stato il massimo.

bring home sonics

Eppure, nonostante le tante delusioni, a Seattle si continua a sperare. In città ci sono parecchi gruppi di irriducibili che si riuniscono periodicamente al grido di “Bring our Sonics back”, riportate a casa i nostri Sonics, consolandosi nel frattempo con le partite della squadra della WNBA, le Seattle Storm. I loro colori? Bianco, verde ed oro, proprio come i Sonics. Qualche anno fa, grazie alla ristrutturazione miliardaria della KeyArena, costata circa 900 milioni di dollari, a Seattle è arrivata una franchigia della NHL. Ora che David Stern non è più al timone della NBA, le cose stanno lentamente cambiando. Il prossimo 10 ottobre il basket professionistico tornerà a Seattle, anche se solo per una partita amichevole tra Clippers e Jazz. Nella Emerald City c’è ancora chi considera il trasferimento in Oklahoma illegale, un colpo basso dell’odiato Stern, che vedeva Seattle come un mercato marginale. Altri, invece, sperano che il suo successore garantisca alla città del Pacific Northwest un posto nella prossima expansion run dell'NBA, proprio come nel lontano 1967. Questo basket ossessionato dalla politica e dai social media, avrebbe davvero bisogno della passione dei tifosi dei Sonics. La tradizione e l’amore di un’intera città non hanno prezzo.

Una cosa è certa: storie del genere possono succedere solo in America.

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