Basso si difende: "Non sono dopato"

"Mai fatta l'emotrasfusione. Non sono un pentito che tira in ballo gli altri". Ma l'autodifesa ha zone d'ombra e qualche omissione

Basso si difende: "Non sono dopato"

Milano - Ha davanti una catasta informe di umani, di flash, di telecamere e di microfoni. Stavolta però non è su un festoso palco del Tour de France: il clima, nella sala dell’albergo milanese, sa più di Inquisizione. È il classico day-after: Ivan Basso a cuore aperto, almeno in teoria, dopo la confessione che ha sconvolto mezzo mondo. A suo merito, l’onesta accettazione di queste spietate regole del gioco: rispetto ad altri, che dopo la vergogna sono spariti (leggi Ullrich), ma anche rispetto al se stesso dell’ultimo Tour, quando lo esclusero come indesiderato e lui svanì dalla porta di servizio, stavolta si siede al banco degli imputati e accetta le domande, guardando tutti dritto negli occhi, senza mai abbassare lo sguardo. Dice subito di non poter rispondere sui dettagli dell’inchiesta, cioè sulle cose che più interessano, perché segretato dalla Procura Coni. Sul resto, invece, nessun problema. Che poi la sua lunga deposizione pubblica risulti anche efficace e convincente al cento per cento, ecco, questo non si può dire. Qualche zona d’ombra, qualche omissione, qualche pretesa eccessiva: in un ipotetico punteggio di giuria, sono tutti punti a sfavore. Sul mio personalissimo cartellino, le dichiarazioni fondamentali risultano queste.

Prima di tutto, l’entità della colpa. Basso sottolinea più volte di non aver confessato un doping effettivo, cioè consumato, ma soltanto una stupida leggerezza. Meglio detta, con le sue stesse parole: «Le sacche di sangue conservate dal dottor Fuentes non erano manipolate. Era solo il mio sangue, e basta. Ma l’autoemotrafusione io non l’ho mai fatta. Ricordo che corro da 23 anni, che ho sempre vinto. Ma posso garantire che non mi sono mai servito di sostanze chimiche o di pratiche vietate. Lo dimostrano i tanti controlli a sorpresa che ho subito. E lo dimostra la stessa federazione internazionale, che mi ha sempre portato ad esempio, come atleta modello per la regolarità dei miei parametri medici».

Ovvia la domanda: ma allora perché ha mandato in Spagna il sangue? «È una questione psicologica. Tu senti continuamente dire che in gruppo c’è chi bara. E allora ti viene il timore di non essere all’altezza. Così, pensi di premunirti per eventualità future. Una stupida leggerezza, questa la mia colpa. Soltanto adesso comprendo i danni del gesto. Ma ora è tardi, purtroppo».

Chiamiamolo doping psicologico. O doping preventivo. Uno si porta avanti, poi un domani vai a sapere. Credergli? Prima di rispondere, conviene sentire anche il resto. C’è la questione fondamentale, almeno qui in Italia, di come definirlo: pentito, collaboratore, o che altro. Lo sappiamo: dietro i termini, si nascondono altre cose. Basso lo sa, Basso insiste - pure troppo - su questo punto: «Sia chiaro: io non sono un pentito che tira in ballo altri. Anche perché effettivamente non so chi e che cosa ci sia in ballo. Certi rapporti sono sempre segreti. Io rispondo solo di me stesso e parlo solo di me stesso». Evidente il riferimento alla legge del branco che vige nel gruppo, dove chi canta rischia quanto meno l’isolamento, per usare l’eufemismo. Legittima la posizione, ma a questo punto diventa una simpatica barzelletta la poesia che certa grancassa retorica ha frettolosamente innalzato l’altra sera: Basso eroe dell’antidoping, Basso punto di partenza per una pulizia generale, Basso prezioso collaboratore della giustizia. Niente di tutto questo. Come ribadisce l’interessato, «sono accusato solo di tentato doping: questo ho confessato, di questo rispondo». Se vogliamo, un punto a favore gli va concesso per quanto aggiunge dopo: «So che comunque il solo tentativo è punibile, dunque vado incontro al mio castigo. Se mi aspetto sconti? No. Avrò una pena giusta. L’accetterò e poi ricomincerò».

Poi ci sono gli altri perché. Perché confessare solo ora, prima di tutto: dopo un anno di imperterrite e cocciutissime bugie. «Nella vita si sbaglia. Comunque meglio tardi che mai, no?». A tanti autorevoli commentatori la cosa è bastata per dipingere Basso come santo ed eroe, l’uomo a busto eretto che ad un certo punto si carica sulle spalle il supplizio e la missione, diventando dalla sera alla mattina il paladino di un nuovo sport. Diciamolo: è una mistificazione. È una volgarissima operazione retorica. Basso ha confessato soltanto davanti all’irrinunciabile pacco dono della Procura Coni, una cosa più o meno di questo genere: ragazzo, abbiamo le sacche di sangue, ormai possiamo fare il confronto con il tuo Dna, com’è successo a Ullrich. Se ti senti sicuro, vai fino in fondo. Ma se hai qualche incertezza, prova a prendere in esame questa nostra offerta: comprensione, sconto di pena, ipotesi di reato contenuta nel solo «tentativo» di doping. Fine. Tempo due o tre giorni, Basso ha accettato. E questo, comunque, resta un merito, in un mondo popolato da gente che nega anche d’essere nata (vedi proprio Ullrich, che nega anche davanti al Dna).

Facciamola corta: bisogna sbaraccare da questa storia il frettoloso alone romantico che tanti mielosi agiografi hanno diffuso nell’aria. Basso ha tenuto duro un anno, poi ha perso la corsa con la giustizia. Che poi davvero quest’anno si sia rivelato un inferno, nessun dubbio. Va creduto, quando dice: «In quest’anno, l’incubo ha pesato molto più delle vittorie, della gloria, del denaro. Ricordando tutto questo, alla fine mi è stato più facile decidere. Come sono stato solo a fare la sciocchezza, così sono stato solo nel prendere questa decisione».

Resta infine il capitolo domani. Bisogna ammetterlo: è la parte più debole della deposizione pubblica. Sul personalissimo cartellino, tutti punti in meno. Basso pretenderebbe un’operazione di questo genere: okey, ho confessato, ora pago, poi però non se ne parli più. Come minimo, la fa un po’ facile. Sentire per credere: «Provare vergogna? Non credo di dover provare vergogna. Ho chiesto scusa, finita lì. Questa resterà una debolezza che pagherò con un giusto prezzo. Ho 29 anni, mi resta il tempo per mettere a fuoco e costruirmi un nuovo futuro. Tornerò a fare il mestiere che amo. Chiedo rispetto, per la mia scelta. E chiedo che da ora in poi si parli delle mie prestazioni sportive, quando tornerò, senza tirare sempre fuori questa storia. I tifosi? I miei tifosi veri credono a me, ai miei risultati.

Considerano questa vicenda soltanto per quello che è, una stupida debolezza. Quanto agli altri, ai dubbiosi, saprò di nuovo farmi voler bene. Non mi spaventa, la cosa: corro da tanti anni, tutto quello che ho fatto, l’ho fatto onestamente». Credergli?

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