Basta ignorare le potenzialità del centro storico

Basta ignorare le potenzialità del centro storico

Parlare di deficit culturale della nostra cosiddetta classe dirigente nei confronti del centro storico genovese, è un cortese eufemismo.
E non solo della classe politica che stringe nelle sue rapaci mani Genova da oltre trent’anni: diciamo pure che la maggior parte dei genovesi considerano questi 116 ettari e 40 Km di carruggi, come il buco nero nel quale è inevitabile nascondere i mali e i disagi della città, dall’immigrazione ai malati di mente, dagli alcolizzati agli spacciatori di droga, dagli emarginati di ogni tipo agli ultimi arrivati, i Rom, la trovata geniale di Madame la sindachessa, che, con Arte e Curia, ha trovato modo di sistemare tutti quelli che è riuscita a rastrellare nelle baraccopoli. E i nuovi arrivati si sono subito dedicati alla loro attività preferita, il furto negli appartamenti, un reato abbastanza desueto, qui da noi, E che «deficit culturale» sia veramente un cortese eufemismo lo confermano gli innumerevoli «disagi» (altro cortese eufemismo) e, con l’avvento dell’era Marta, le sopraffazioni vere e proprie cui gli abitanti del centro storico sono sottoposti, dal raddoppio della tassa per Ztl, all’accanimento dei Vigili Urbani presenti solo per mettere furtivamente le contravvenzioni più assurde, tanto il ricorso ai cosiddetti giudici di pace è inutile, al criminale progetto Mercurio che ci ha definitivamente ghettizzati.
Il centro storico genovese, il più grande d’Europa, potrebbe, con il Porto, essere la vera forza trainante della città, sfruttando il turismo, attività che ha reso ricche regioni intere dell’Italia, ma che qui da noi è nota soprattutto per lo spot della «torta di riso che è finita».
Tra la marea di esempi, ci limitiamo a quello dei turisti giapponesi che chiedevano, di fronte alle macerie dell’ultima guerra, se Genova fosse stata colpita da un recente terremoto, o l’attualissima situazione di Piazza San Lorenzo, gremita dall’alba sino a mezzogiorno da camion più o meno giganteschi per la discarica delle merci ai negozi con qualche isolato turista che cerca invano di fotografare il Duomo: qualcuno ha forse visto Piazza della Signoria a Firenze occupata dai Tir? (L’Assessore Scidone ha scritto l’8 Ottobre scorso su «il Giornale» di avere emesso - a Maggio!- l’Ordinanza Sindacale per il divieto dello scarico delle merci davanti alla Cattedrale...).
Nel centro storico sono tutt’ora vive le testimonianze del nostro passato (le famose radici), vi è praticamente «tutta» l’arte di questa città, Chiese, musei, pinacoteche, architettura, biblioteche, e i turisti non vanno ad Albaro o a Castelletto, non vanno, con buona pace di Bampi e del Mil, a Sampierdarena o a Sestri o a Voltri: come accade in tutte le città d’Italia e d’Europa i turisti visitano i centri storici, che dovrebbero essere in grado di accoglierli, come avviene dappertutto, tranne che da noi.
E questo patrimonio, che tanti vorrebbero radere al suolo per costruire grattacieli e centri commerciali, è costantemente minacciato: ogni personaggio che assurge al trono di Tursi, si sente in dovere di dare la propria spallata, di lasciare il suo particolare segno doloroso, di girare il coltello in queste vecchie piaghe: ignoranza, stupidità, o entrambe?
L’ultima idea è del geniale Bampi, Docente universitario, presidente de A Campagna, sampierdarenese doc: costruiamo la Moschea in luogo del Mercato del pesce, come a dire nel cuore del centro storico, in modo da far giungere qui tutti i mussulmani liguri e piemontesi e ridurre il centro storico ad una enclave araba, come a Marsiglia, dove gli stranieri «infedeli» sono sgraditi e respinti.
Sarebbe, questo, il vero, ultimo e definitivo colpo di grazia a questa città nella città.
A volte penso a una terra del profondo Sud che conosco bene, le Puglie: anche qui pacifici ma non meno invasivi eserciti, ogni anno marciano compatti sulle melanconiche testimonianze della nostra storia; portano ricchezza, riempiono botteghe, ristoranti, alberghi musei, ed ogni stagione ci strappano uno spicchio di anima e noi abbiamo sognato la Puglia, con le decine di piccole città ancora ignote agli implacabili marciatori con Nikon digitale appesa al collo.
Città tutte bianche assediate dal sole, calcinate dal caldo, con le case addossate una all’altra e le viuzze minime dei loro centri storici, dove tocchi con mano l’amore di quella gente per le loro città, il rispetto e la naturalezza con le quali le vivono e le fanno vivere ai loro ospiti: l’orgogliosa Trani, la cui sola cattedrale sul mare, vale un viaggio, all’elegante Martinafranca o Cisternino, Crispino, Ostuni o la temibile Bari vecchia, oggi risanata, o Massafra che domina la sua misteriosa «gravina» e ha organizzato un museo per valorizzare i sui tanti reperti del passato, quelli che a Genova sono lasciati all’incuria, al furto, al degrado.
Lo stesso amore e rispetto che abbiamo visto girovagando nelle piccole città della Francia profonda o nei borghi andalusi e catalani.


Perché il centro storico genovese non riesce, non può, non «deve» entrare nel circolo virtuoso delle città amate dai loro figli?
Perché ci è negata perfino la speranza di un «nostro» centro storico «diverso» ma «normale», con la sua gente, di tante lingue e colori, che vive «normalmente» la sua quotidianità senza sentirsi un indiano nella riserva, fotografato con circospetta curiosità dal turista di turno?
Porto e centro storico: due business da cui tutta Genova, da Voltri a Nervi trarrebbe vantaggio e che amministrazioni incompetenti e neghittose hanno relegato al declino e al degrado.
Ce la faremo mai a uscirne?

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