Basta ipocrisie, è guerra: chiamiamola col suo nome

Per una volta sono tutti d'accordo con l'intervento armato. Ma non ci si può nascondere dietro agli asettici "raid" o "missione": sarà un vero conflitto

Basta ipocrisie, è guerra: chiamiamola col suo nome

Pare proprio che sia così: l'Italia non solo s'è desta, ma ha anche calzato l'elmo di Scipio. Una delle nazioni più pacifiste al mondo, capace di impavesare le città di bandiere arcobaleno, sta per scendere in guerra. E per una volta tanto - forse addirittura per la prima volta - tutti più o meno condividono la decisione, tutti sono d'accordo nel dar fuoco alle polveri. È bastato che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite votasse - dieci sì e cinque astenuti - la risoluzione 1973 che autorizza l'uso della forza contro il regime di Tripoli. Ciò che significa l'attuazione della no fly zone, il divieto di passaggio, via terra, ovviamente, di mezzi corazzati, blindati o trasporto truppe, una zona di esclusione marittima, raid per mettere fuori uso le postazioni radar e antiaerei e aiuto materiale (armi, uomini?) ai ribelli. Tutto ciò difficilmente potrà essere portato a termine se nelle canne dei fucili ci si mettono dei fiori. Saranno anche intelligenti le moderne bombe, ma all'atto pratico fanno lo stesso lavoro di quelle stupide.

C'è una seconda sorprendente novità, oltre alla scomparsa dalla nostra scena politica dei pacifisti e del pacifismo. Non si parla di petrolio. In simili casi, quando cioè nel conflitto è interessata una nazione per così dire araba, il «fattore petrolio» è sempre stato al centro del dibattito politico e civile. E le azioni di forza occidentali immancabilmente attribuite alla volontà di salvaguardare, appunto, gli interessi petroliferi, aspirazione da sempre considerata, dai più avvertiti fra i democratici, indegna e ignobile. Questa volta no. Nemmeno Vendola ha calato sul tavolo quella carta, e sì che la Libia esporta (esportava, prima che divampasse la «primavera araba») ben 1,3 milioni di barili al giorno, entrando nel novero dei massimi produttori di oro nero.

La benedizione dell’Onu (che in altre occasioni non è bastata, anzi) e la scelta di non tirare in ballo il petrolio restituiscono dunque alla guerra che verrà, se verrà - Ignazio La Russa ha annunciato addirittura la possibilità di incursioni aeree in Libia - una connotazione che dal 1945 in poi era scomparsa dal vocabolario politico: quella di guerra «giusta». Se però la si ritiene tale, si deve chiamarla con il suo nome. Guerra, appunto. Invece la si chiama in cento altri modi, nello spirito del politicamente corretto, la Lourdes linguistica dove il male e la sventura - e dunque la guerra - svaniscono con un tuffo nella sante acque dell'eufemismo. E dunque eccola diventata «operazione», «iniziativa», «misure» (sempre «necessarie»), «intervento» (il più delle volte «umanitario»), «raid», «no fly zone», «interposizione», «controllo» (più o meno «capillare»), «missione» (quando non addirittura «di pace»).

Tutte perifrasi che escludono il richiamo diretto a ciò che seguirà nei fatti: sparare, bombardare. Fare, cioè, la guerra. E farla, per quel che ci riguarda, a un tiro di schioppo - è proprio il casi di dirlo - dalle nostre coste, dalle nostre città.

L'armata se ne va - cantavano un tempo - e se non partissi anch'io sarebbe una viltà. Principio, questione d'onore che vale ancora oggi, basta però che si chiamino le cose col loro nome: se alla fine ci si andrà, si andrà alla guerra, non alle grandi manovre.

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