
Gentile Feltri, sono un pensionato calabrese e sento parlare del Ponte sullo Stretto da quando ero bambino. Fa davvero impressione come, in Italia, ogni volta che si prova a fare qualcosa di nuovo qualcosa che potrebbe risolvere problemi vecchi di decenni e dare una spinta al nostro Paese ci sia sempre qualcuno pronto a mettere il freno. La mia domanda è: siamo solo di fronte alla paura del cambiamento, o c'è qualcosa di più profondo? Un gioco di poteri, forse, che non accetta che una certa politica arrivi alla modernità rappresentata da un'opera pubblica così importante? Spero davvero di riuscire a vedere quel ponte finito prima di tirare le cuoia.
Giuseppe Di Biasi
Caro Giuseppe,
hai ragione: il Ponte sullo Stretto è stato per decenni la barzelletta nazionale, un miraggio, un mito. Per oltre cinquant'anni lo abbiamo annunciato, studiato, promesso. Ma non si è mai mosso un bullone. Non perché sia un'opera impossibile, anzi, ingegneristicamente è fattibilissima e avrebbe ricadute enormi sul traffico, sull'economia e persino sull'orgoglio nazionale, ma perché in Italia abbiamo un vizio antico: troviamo sempre una scusa per non fare nulla.
Ogni volta che qualcuno prova a mettere mano a un progetto ambizioso, ecco spuntare i professionisti del no. C'è una parte del Paese che vive opponendosi sistematicamente a qualsiasi forma di progresso. Ed è questo il primo vero ostacolo da superare. Si tratta degli stessi che dicono no TAV, no rigassificatori, no trivelle, no autostrade, no ponte. È una resistenza cieca e pregiudiziale, non una difesa della tradizione, piuttosto un odio viscerale nei confronti dell'innovazione. E così si resta fermi, immobili, prigionieri di una nostalgia fasulla, che nasconde in verità un timore del cambiamento.
La verità è che a certi individui il futuro fa paura perché li obbligherebbe a rinunciare alla comoda rendita della lamentela. Se il Ponte si costruisse davvero, e si costruirà, loro perderebbero l'ennesimo argomento di propaganda. Meglio allora restare nel limbo, dove possono continuare ad urlare che nulla funziona, che il Sud è isolato, che l'Italia non muta mai.
Tu chiedi se dietro ci sia un gioco di potere: certo che sì, amico mio. Il Ponte non è soltanto acciaio e cemento, è soldi, appalti, influenza. E mantenere il progetto in eterno cantiere sulla carta ha permesso di campare politicamente di promesse mai mantenute. Un cantiere aperto dà fastidio, un progetto mai iniziato consente di continuare a discutere, a dividere, a strumentalizzare.
Nel frattempo, cittadini come te, che hanno diritto a collegamenti moderni e a vivere in un Paese competitivo, invecchiano nell'attesa, da bambini che erano si ritrovano nonni. Tu speri di vederlo prima di tirare le cuoia, ebbene, te lo auguro di cuore, la buona volontà del ministro Salvini e di tutto il governo c'è, eccome se c'è, tuttavia persiste e resiste anche dentro di me un dubbio. Troppi campano meglio sull'immobilismo che sull'azione.
Io non so se il Ponte si farà davvero. Pare di sì. Bene. Ma so che se non lo facciamo stavolta, non lo faremo mai più.
E resteremo un Paese di chiacchieroni, moderni negli slogan e medievali nelle opere. Il mondo va avanti, corre e noi restiamo fermi a discettare se sia giusto o no costruire un ponte che, altrove, sarebbe stato completato già da decenni e ora sarebbe in ristrutturazione.